Monday 15 November 2010

Morali senza Dio

di Raffaele Carcano

Gran parte dell’umanità vive oggi in società in cui non esiste più la certezza dell’esistenza di Dio. Non che nei tempi andati ci fossero evidenze di diverso tenore, ora venute improvvisamente meno: molto più semplicemente, a venir meno sono state quelle leggi che garantivano adeguate punizioni a coloro che osavano mettere in discussione un simile assunto. La laicizzazione e la secolarizzazione hanno fatto il loro corso: il numero dei non credenti è cresciuto esponenzialmente con il crescere dell’istruzione, del tenore di vita, del riconoscimento della libertà di espressione, ma anche la gran parte dei credenti sa che, ormai, affidarsi a Dio significa affidarsi a qualcuno sulla cui esistenza si può solo congetturare. La conseguenza più eclatante di tale situazione è che qualsiasi morale, la cui legittimità riposi su presunte leggi istituite da un essere divino la cui esistenza è opinabile, e la cui interpretazione sia lasciata ad esseri umani inevitabilmente fallibili, si trova ora priva di qualsivoglia fondamento.
Dell’enormità della posta in gioco sono molto più consci in Vaticano che alla Mecca – anche perché i leader arabo-musulmani rientrano tra coloro le cui affermazioni sono tuttora protette con l’uso della coercizione. Benedetto XVI prova probabilmente un po’ di invidia per i fratellastri islamici, ma deve fare di necessità virtù: è per questo che la Chiesa cattolica, dopo averlo combattuto a lungo, ha negli ultimi anni valorizzato il «diritto naturale», accompagnandolo con la richiesta del «riconoscimento delle radici cristiane». Succedanei dal valore argomentativo praticamente inesistente, e che infatti possono attecchire soltanto in ambienti già aprioristicamente favorevoli alle istanze ecclesiastiche.
Tuttavia, qualcuno ci ricorda che una base morale esiste già: è quella che ci accomuna agli altri primati. Presso scimpanzé, bonobo, gorilla, è infatti possibile ravvisare comportamenti e desideri molto simili ai nostri: come noi sono capaci di manifestare emozioni, affetti, altruismo «disinteressato». Il primatologo Frans De Waal, in un importante articolo disponibile sul sito del New York Times, intitolato Morals Without God? (Morali senza Dio?), ha evidenziato molto bene questo aspetto, approfondendo anche ciò che ne consegue. La nostra prossimità biologica con gli altri primati è talmente evidente che è da questo dato di fatto che il dibattito dovrebbe cominciare, anche se ciò genererà mal di pancia a chi continua a pensare che l’uomo è tuttora al centro del «creato», e le altre specie sono state poste a sua completa disposizione. «L’accettazione dell’evoluzione può aprire un abisso morale, per chi crede che la morale discenda da Dio», chiosa a ragione l’etologo olandese, notando come solo un pertinace creazionista possa oggi negare la maggior antichità della moralità rispetto alla religione, che ha alle spalle solo poche migliaia di anni di storia. Qualcuno può ancora veramente credere, scrive ancora De Waal, «che, prima che avessero una religione, i nostri antenati mancavano di norme sociali, o non assistevano i propri simili in difficoltà?» La moralità «è costruita dentro di noi»: e la religione, piuttosto che una fonte della moralità, può invece essere ritenuta un suo mero «accessorio».
Problemi di questo tipo, tuttavia, non sono un’esclusiva dei credenti, sostiene De Waal. Anche se siamo discendenti di altri animali sociali, ritiene difficile definire uno scimpanzé, che non sembra in grado di giudicare l’adeguatezza delle azioni che non coinvolgono se stesso, «un essere morale». La specificità della moralità umana consisterebbe nella propensione a muoversi «verso standard universali combinati con un elaborato sistema di giustificazione, controllo e punizione». Le religioni si sono rivelate straordinariamente adeguate a soddisfare tale impulso: una morale senza Dio è in grado, si chiede De Waal, di fare altrettanto? Ulteriore difficoltà: è «impossibile sapere a cosa assomiglierebbe la nostra moralità» se non avessimo alle spalle millenni di religione. Occorrerebbe trovare una cultura umana che non si sia mai imbattuta nella religione. Impossibile. Del resto, come hanno sostenuto Telmo Pievani e altri sulla scia di Pascal Boyer, siamo in qualche modo «nati per credere». Anche se non siamo affatto destinati a morire cristiani.
Criticando i new atheists, De Waal sostiene che la scienza non è in grado di costituire un’alternativa migliore della religione. Non abbiamo bisogno di Dio per spiegare cosa siamo ora, scrive, ma ciò non implica che la scienza o una visione naturalistica del mondo possano automaticamente diventare un’ispirazione per realizzare il bene. Ogni nuovo sistema ideologico sviluppato per sostenere un certo quadro morale sarebbe infatti destinato, conclude scetticamente, a produrre «una sua lista di principi, i suoi profeti, i suoi devoti seguaci», tanto da apparire molto presto simile «a ogni vecchia religione».
Ricapitolando: dobbiamo metterci alle spalle Voltaire, che sosteneva che «se Dio non ci fosse, bisognerebbe inventarlo», perché l’invenzione di Dio non ha aiutato più di tanto la specie umana dal punto di vista morale. E dobbiamo dimenticare anche Dostoevskij, che riteneva che «senza Dio tutto è permesso», perché con o senza Dio la morale di homo sapiens continua a basarsi, nelle sue caratteristiche più rilevanti, su una morale ‘animale’ risalente ad almeno dieci milioni di anni fa. Ma, poiché non vi sono evidenze che tale morale possa evolvere in qualcosa di molto diverso, anche le etiche non religiose sono destinate allo stesso scacco. Lo scetticismo di De Waal, come si può notare, è notevole, tanto da condurre a una totale impasse: sappiamo che la morale non discende da Dio, ma sappiamo anche di avere pochi margini di manovra per godere di vite morali migliori di quelle odierne.
Tale insolubile difficoltà affliggerebbe dunque nella stessa misura credenti e non credenti. Ma stanno realmente così le cose? Forse la difficoltà è soprattutto dei credenti, che si trovano a dover far fronte a un intero castello ideologico in macerie e a una consolidata abitudine a vivere secondo una morale preconfezionata da qualcun altro. Come se non bastasse, l’inadeguata propensione a mettere mano ai problemi è amplificata dal fatto che le concezioni problematiche sono ritenute «sacre» e, pertanto, difficilmente modificabili. Non è dunque un caso che i credenti siano largamente estranei al dibattito che è stato già avviato negli ultimi anni (si vedano, per esempio, i contributi riportati in coda a Primati e filosofi dello stesso De Waal). I non credenti partono infatti avvantaggiati: cercare di risolvere un problema ritenuto insolubile è una sfida impegnativa, fors’anche utopica, ma più facile da affrontare da parte di chi non ha da rimuovere macigni dogmatici, non ha autorità morale a cui sottomettersi, ed è abituato a creare autonomamente il senso da dare alla propria vita.
Nell’ultimo capitolo di Uscire dal gregge abbiamo riconosciuto che anche una comunità di non credenti (come qualunque comunità umana, fosse anche una bocciofila!) può andare incontro a derive come quelle paventate da De Waal. I non credenti sembrano però disporre di migliori anticorpi: sono infatti più propensi dei credenti ad ammettere che anche il proprio gruppo può correre certi rischi, e sono più abituati – in quanto più laici, in quanto più abituati a ragionare sulla base di evidenze – ad ascoltare le tesi altrui, cogliendo quanto di buono possono offrire per sviluppare ulteriormente le proprie. Sono qualità che non necessariamente sono precluse ai credenti, ovviamente: lo sono però per coloro che appartengono a comunità di fede in cui sono assenti «semplici e praticabili modalità di ingresso e di uscita, democrazia interna, circolazione delle informazioni, riconoscimento delle differenze, spazi per introdurre cambiamenti, la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero anche quando è critico nei confronti della dirigenza».
Caratteristiche di questo tipo non sono utili soltanto alle società: sono utili anche agli individui, e non solo per sviluppare una morale. Del resto, il fine ultimo di confronti di questo tipo non è certo l’imposizione di una morale unica: è semmai quello di creare società che diano strumenti e spazi affinché ognuno si crei la propria, con una propria concezione del bene, all’interno di un quadro minimo di regole condivise e da rispettare. Per farlo, non c’è dunque affatto bisogno di lunghe liste di dogmi, di nuovi profeti, di devoti seguaci di nuove e vecchie ideologie ritenute inattaccabili.

Questo articolo è apparso il 15 novembre 2010 su http://www.uaar.it

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