Friday 25 March 2011

Thursday 17 March 2011

Lezioni di patriottismo

di Rinaldo Francesca

“La questione del bruciare la bandiera. Quella sì che ha portato alla luce un po' di emozioni da ritardati!”
Così cominciava uno sketch del compianto Bill Hicks, seguito da un immaginario dialogo tra sé stesso e uno dei tanti personaggi con i quali Hicks popolava il suo palco.
In questo dialogo, un immaginario, indignato patriota redarguiva Bill per aver commesso l'atto sacrilego di bruciare la bandiera degli Stati Uniti.
“Lascia che ti dica una cosa”, cominciava “mio padre è morto per quella bandiera!”
“Davvero?” domandava Bill impassibile “La mia l'ho comprata. La vendono da K-mart per 3 dollari”.
“È morto nella Guerra di Corea per quella bandiera!”
“Che coincidenza! La mia è stata fatta in Corea!”
Quello che Bill Hicks riusciva magistralmente a dire con quest'ultima battuta era: “No gioia, non so come dirtelo per non urtare la tua sensibilità, ma in realtà tuo padre non è morto per questa bandiera. Tuo padre è morto affinché le corporazioni multinazionali – basate prevalentemente nel nostro paese – potessero avere un accesso preferenziale ai mercati asiatici, chiudere le fabbriche qui (licenziandone i lavoratori) e aprirne delle altre in Corea, dove la manodopera è molto meno cara. Sicché, se veramente onori la memoria di tuo padre, avendo un po' di sale in zucca, l'ultima cosa che dovresti fare sarebbe venerare il simbolo fasullo che gli è stato propinato per mandarlo a morire all'altro capo del mondo. Dovresti piuttosto darmi una mano a bruciare questo stupido pezzo di stoffa”.
E tutto questo Bill Hicks diceva con una sola battuta: “My flag was made in Korea”. Geniale!

O forse sono io che sbaglio?
Non lo so, aiutatemi voi a capire. Datemi qualche lezione di patriottismo, in una giornata come questa, che qui dalle mie parti viene solo associata con il giorno di San Patrizio.
Davvero: esiste forse un motivo razionale per cui un cittadino di un qualunque paese del mondo debba giurare totale lealtà, fino all'estremo sacrificio, solo a una piccola porzione del pianeta - non tutto, e solo a una piccola porzione della popolazione della Terra – non tutta? Per il solo fatto che il punto geografico in cui questo ipotetico cittadino è nato si trova, per puro caso e in séguito a decisioni prese da altri, in quella specifica porzione di mondo – la quale peraltro non è immutabile, ma di cui tutto è soggetto a cambiamenti e modifiche (costituzione, leggi, governi, amministrazioni, lingue parlate, confini territoriali, etc)?
OK, vediamo se riesco a indovinare le vostre obiezioni.
Obiezione no.1: ma quale estremo sacrificio? Quando si parla del Belpaese per esempio, nessun italiano è disposto a rinunciare nemmeno all'aperitivo se non si è prima assicurato che ci sia il suo bravo tornaconto (assicurare “posto fisso” ai figli, etc etc).
D'accordo. Allora smettiamo di raccontarci delle balle e, soprattutto, cambiamo quell'inno nazionale, per piacere, che viene tuttora inflitto ai bambini delle scuole elementari. Eh sì perché me li ricordo bene gli italianini festaioli che scorrazzavano per le strade di Soho, festeggiando la vittoria degi Azzurri milionari in braghette ai mondiali del 2006: adorabilmente, lo cantavano eccome quell'inno, né si tiravano indietro quando si trattava di cantare la spassosa strofa: “Siam pronti alla morte”. Capite? Tutti pronti alla morte, a quanto pare. Dal primo all'ultimo.
Obiezione no.2: ma quale motivo razionale? Se abbiamo imparato qualcosa dalla vita, allora dovremmo sapere che è proprio per le ragioni più irrazionali ed emotive che certe persone sono disposte a sgozzarsi tra loro: non certo per il numero di Avogadro. Di solito si tratta delle stesse persone che disprezzano l'idea stessa di mettersi a ragionare a tavolino, razionalmente, per concludere dove stia la ragione, e che congedano tale idea con termini dispregiativi quali “buonismo”, o “relativismo morale” (perlomeno, quelli tra loro che riescono a esprimersi con parole che contengano più di una sillaba).
D'accordo, obiezione recepita; ma mi piace pensare – correggetemi se sbaglio – che quei quattro lettori (letteralmente quattro, come potete vedere) →
che si avvicinano a questi sparpagliati, innocenti pensieri abbiano un quoziente d'intelligenza un po' più alto rispetto alle creature di cui sopra. È ad essi che mi rivolgo per avere qualche dritta. Aiutatemi voi.
Allora, si tratta di giurare “fedeltà” a quella bandiera? Del tipo: “Non avrai altra bandiera all'infuori di quella”? Giuramento tradito da milioni, ogni domenica allo stadio?
Quando facevo il servizio militare ne sentivo parecchi di quelli che Bill Hicks avrebbe chiamato ritardati (ritardati in uniforme: un cocktail esplosivo!) che dicevano proprio questo: “Bisogna essere leali a quella bandiera, e pensare a quante persone sono morte perché fosse quella, e non un'altra”.
Ahinoi, e chi ha il coraggio di infrangere le illusioni di queste povere creature, spiegando loro che il luogo dove quella bandiera fu concepita nel 1797 – e dove l'originale è tuttora conservato, cioè la Sala del Tricolore nel palazzo del Comune di Reggio Emilia – non era poi un posto così pericoloso e, a quanto ci è dato sapere, non vi furono morti in quell'occasione, nella sala principale del comune? D'altronde, a ben guardare, il tricolore era la bandiera della Repubblica Cisalpina, ed era un tricolore orizzontale, con strisce rosse, bianche e verdi e, al centro, un emblema composto da una faretra: quindi, per coloro che non l'avessero capito, non si trattava nemmeno di quella bandiera.
Del resto, ammetto che il mio servizio militare potrà essere stato piuttosto inusuale, avendolo io trascorso più che altro in Somalia nel '94 (operazione Ibis), circondato da compagni d'armi che erano partiti per questa meravigliosa avventura nella convinzione di riaffermare la presenza dell' Itaglia nei suoi perduti territori nel Corno d'Africa. Non credo di dover aggiungere altro.
Allora, saranno pure leali a qualcosa 'sti italiani, avranno pure un concetto ben definito in mente quando si riempiono la boccuccia della parola “patriottismo”? Che ne so, magari le loro istituzioni? Come per esempio la Costituzione della Repubblica Italiana?
No, probabilmente no, visto che si è continuato a eleggere un fenomeno che la definiva con spregio “di ispirazione sovietica”. [1]
Allora forse i nostri eletti rappresentanti? Sì certo, come no! Soprattutto quei cittadini per i quali la parola “governo” è inseparabile da “ladro” (non del tutto a torto), peraltro in un paese dove – modestia a parte – l'evasione fiscale ammonta a 120 miliardi di euro. [2]
In altre parole: “Siam pronti alla morte?”
“Certo, anche subito!”
“Siam pronti a pagar le tasse?”
“Ehm...”
OK, d'accordo, lasciamo perdere: d'altronde non è da stamattina che Giorgio Gaber, catturando una weltanschauung tutta italica, basata sulla disassociazione da quella mandria nota con il nome di “connazionali”, cantava Io Non Mi Sento Italiano. Ciò che voglio dire è che si sapeva già da un pezzo che l'italiano non fosse patriottico, e che la sua cosiddetta identità nazionale fosse inesistente – anche se è sempre utile riuscire a simularla al momento opportuno, come quando ci si trova a dover guardare dall'alto al basso un qualche straniero (“Allora qui m'incazzo / son fiero e me ne vanto / gli sbatto sulla faccia / cos'è il Rinascimento”).
E un'occhiata tra i blog in lingua italica (quelli che reputo intelligenti) rivela che, in fondo in fondo, non sono del tutto solo quando, all'ennesima volta che mi viene chiesto se – dopo tutti questi anni passati vivendo in diversi paesi – io mi senta prima di tutto ligure, italiano, europeo o chissà che, rispondo invariabilmente: “Mi sento Homo Sapiens”.
Sto pensando in particolare a un tal Natalino Balasso, [3] che scrive: “L’orgoglio è un sentimento pericoloso, non vedo perché dovrei sentirmi orgoglioso di essere italiano, quando questo dovrebbe significare che preferisco essere italiano invece di francese o lèttone o curdo o israeliano o americano. Mi sarebbe indifferente appartenere a qualsiasi nazionalità, perché ritengo che l’amor patrio sia una cosa vuota oltre che pericolosa”.
Oppure all'imperdibile Nato il 17 marzo, di Lame Duck. [4]
Va bene, vi concedo tutto ciò. L'italiano non è patriottico.
Se parliamo però in senso globale, il patriottismo esiste eccome, misurabile, quantificabile, usato un po' ovunque nel caro vecchio spirito del “Non chiedere che cosa possa fare per te il tuo paese: chiedi piuttosto ciò che puoi fare tu per il tuo paese”, per citare JFK.
E allora si ritorna alla mia domanda iniziale: patriottismo in quanto lealtà a una porzione sola di questo pianeta? In un'epoca come questa, in cui il concetto di nazione-stato, ereditato dal Romanticismo, è sempre più astratto e obsoleto, come ci ricordano i burocrati di Bruxelles (non dimentichiamo che c'è un Nuovo Ordine Mondiale da mettere in atto: possiamo mica perdere tempo con queste fregnacce)? Per piacere.
E lealtà a che cosa, esattamente? Ai confini territoriali, e all'entità/dimensione geografica di una nazione?
Beh, visto che siamo in tema di Romanticismo, in un certo senso sì, se si considerano i milioni di giovani vite che vennero mandate al macello durante le guerre napoleoniche per modificare provvisoriamente i confini territoriali della Francia. Mettiamoci il cappello da storici (potete farlo anche voi a casa, bambini).
Come dicono Emma Barker e Antony Lentin: “L'epoca napoleonica terminò dopotutto con un immenso punto interrogativo: la Francia ritornò alle frontiere che aveva nel 1789. Un milione di soldati erano morti nelle guerre di Napoleone. A cosa era servito tutto ciò?” [5]
E proseguiamo nella timeline degli eventi, sperando di attirarci il disprezzo di storici professionisti (preferibilmente barbuti: li voglio barbuti!), che guardino con superiorità al nostro pressapochismio e alle nostre semplificazioni storiche.
L'Alsazia-Lorena (non ve l'aspettavate, eh?).
Decine di migliaia di morti nella guerra franco-prussiana per far sì che questo territorio fosse annesso all'Impero tedesco (i cui cittadini onorarono la memoria dei caduti, morti per regalare ai loro posteri il privilegio di poter annoverare l'Alsazia-Lorena tra i territori della propria nazione).
Nella Grande Guerra però il territorio passò nuovamente alla Francia; e, a séguito di ciò, fu il turno dei cittadini francesi di commemorare le centinaia di migliaia di giovani che morirono al fronte perché si potesse dire che l'Alsazia-Lorena era nuovamente parte integrante del territorio nazionale. E così rimase fino al 1940, quando Hitler pensò bene di inglobarla nel Terzo Reich: niente come un'altra bella carneficina (leggi: seconda guerra mondiale) per rimettere le cose a posto!
Ora, si sente sempre fare l'automatica associazione mentale tra tutte quelle vite buttate e l'onore ai caduti da un lato, e il patriottosimo dall'altro. Sarà, ma a me le due cose sembrano antitetiche. Anzi, ritengo che non vi sia gesto migliore per onorare la memoria dei caduti che quello di rigettare per sempre quelle illusioni astratte che vennero usate per sacrificare tutte quelle vite, solo perché le élites europee avevano voglia di giocare le loro partite di ping-pong con regioni come l'Alsazia-Lorena (con decine di migliaia di morti a ogni passaggio della pallina, tanto per gradire).
A dire la verità, l'autore John Zerzan ha una teoria ancora più inquietante riguardo alle cause della prima guerra mondiale. Leggendo tra le righe della storia, nel suo Origins and Meaning of WW1 (Origini e Significato della Prima Guerra Mondiale), Zerzan passa in rassegna a svariati esempi di disordine sociale che avvenivano in tutta Europa poco prima dello scoppio della Grande Guerra, e che stavano mettendo in discussione le tradizionali istituzioni di potere. Racconta di come i capi di stato in quegli anni avessero la tendenza a essere assassinati con regolarità nel primo decennio e mezzo del Novecento: Umberto I di Savoia (1900), il primo ministro russo Stolypin (1911), il premier spagnolo Canalejaas (1912), re Giorgio di Grecia (1913); ci parla di episodi di sollevazioni di massa contro l'autorità in Russia (in séguito al massacro della Lena), in Italia (con l'insurrezione della Settimana Rossa), in Francia (con 1073 scioperi solo nel 1913, che videro il coinvolgimento di un quarto di milione di lavoratori), in Germania (a séguito dell'incidente di Zabern, e sullo sfondo dell'ammutinamento dei 1300 membri dell'equipaggio del S S Vaterland al porto di Auxhaven) e in Inghilterra (con le rivolte in Ulster del 1913-4). La sua conclusione - peraltro confermata da dozzine di citazioni di personalità politiche e militari dell'epoca - è implacabile: le popolazioni degli stati europei tenevano le loro élites in ginocchio e, se non fosse scoppiata la guerra nel 1914, avrebbero potuto imporre tutte le loro condizioni. [6]
La carneficina del 1914-18, con i suoi 37 milioni di giovani vite falciate, mise fine a tutto ciò. Per arricchire un po' le banche e per conservare le élites europee al potere? A questo servì la Grande Guerra?
Ancora una volta, ripeto la mia domanda: riuscite a pensare a un modo migliore di onorare la memoria di tutti quei caduti se non quello di finire il lavoro che avevano cominciato – e che avrebbero portato a termine se le loro vite non fossero state stroncate perché davano un po' fastidio ai potenti?
“Aah, ingenuo idealista”, mi si dirà “ma non capisci che in realtà, quando si rende omaggio ai caduti per la Patria, non si fa altro che ringraziare il loro sacrificio che rese possibile il benessere di cui godiamo noi oggi?”
È questo il ragionamento? Per i beni materiali e la relativa prosperità di cui godiamo oggi, nei nostri rispettivi paesi, dobbiamo prima di tutto ringraziare coloro che furono sacrificati perché ciò fosse possibile, e la lungimiranza dei governanti di allora, che pensarono bene di mandare tutte queste persone a morire per realizzare questa favolosa ricchezza di cui godiamo oggi?
Sono d'accordo: ma a condizione che si onorino tutti i caduti per quella causa.
Per questa ragione, per esempio, i belgi dovrebbero onorare i dieci milioni di congolesi che vennero sterminati tra il 1891 e il 1911 durante il regno di Leopoldo II per sfruttare (rubare) le risorse del Congo. [7]
Idem per i tedeschi, quando si pensa allo sterminio degli Herero e del Nama. E dite un po' – già che ci siamo – vi risulta che qui in Gran Bretagna vi sia un giorno per commemorare i persiani che vennero uccisi nel 1953, per rimettere sul trono lo Scià di Persia, e continuare a garantire un trattamento di favore alla Anglo-Iranian Oil Company (oggi nota come BP)? In fondo è proprio da questo trattamento preferenziale – e il petrolio persiano a prezzi stracciati per tutti gli anni '50, '60 e '70 – che il Regno Unito deriva il suo attuale benessere.
E quando l'italiano si asciuga una lacrimuccia davanti a una fiamma che commemora i caduti per la patria, pensate che gli vengano in mente le vite devastate dall'italianissima Agip in Nigeria? Non siamo forse anche lì al cospetto di vite sacrificate per un benessere tutto per noi?
Ed esiste da qualche parte nel mondo un giorno per commemorare tutti i coltivatori indiani che continuano a commettere suicidio perché devono fare i conti con un certo aggiustamento strutturale imposto dal Fondo Monetario Internazionale, che obbliga il loro governo a importare e immettere sul loro mercato le nostre colture – mandando in sfacelo la loro agricoltura? In fondo questo si traduce in benessere per i nostri mercati, no?
Niente, continuo a brancolare nel buio: non è la bandiera, non è l'inno, non è l'identità geografica, non sono i caduti per la patria....
Mi date una mano voi a capire che cosa dovrei celebrare oggi?
O devo vestirmi di verde e andare a festeggiare San Patrizio?

[1] Berlusconi: "La Costituzione è di ispirazione sovietica", Repubblica, 12 aprile 2003, disponibile qui:
http://www.repubblica.it/online/politica/berluparla/torino/torino.html
[2] Sebastiano Barisoni:
Sale l'evasione che tocca quota 120 miliardi di Euro - Le differenze territoriali: dove si evade di più, Radio 24, 24 maggio 2010, pubblicato su:
http://www.radio24.ilsole24ore.com/main.php?articolo=evasione-fisco-manovra-correttiva-carte-credito-banche-federalismo-tasse
[3] Natalino Balasso:
Retorica di Sinistra, 20 febbraio 2011, reperibile qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/20/retorica-di-sinistra/93129/
[4] Disponibile su:
http://ilblogdilameduck.blogspot.com/2011/02/nato-il-17-marzo.html
[5] Emma Barker e Anthony Lentin (2004) Block 2 –
The Napoleonic Phenomenon, The Open University, pagina 139.
[6] John Zerzan:
Origins and Meaning of WWI, reperibile qui:
http://www.scribd.com/doc/49337748/Zerzan-Origins-and-Meaning-of-WWI
[7] Adam Hochschild:
King Leopold's Gold (Boston, 1998)

Friday 11 March 2011

Il mio regno per un PR manager!

di Rinaldo Francesca

La situazione era rovente: il popolo era là fuori, per le strade, in piazza, a urlare all'unisono le sue condizioni. Voleva democrazia, libertà. Voleva essere governato da persone che avessero ricevuto il suo voto, non da quel dittatore a capo dell'orrenda giunta militare che, trincerata nel suo palazzo, scatenava l'esercito per sparare sui dimostranti – sulla sua stessa gente – e già c'erano stati dei morti. [1]
Amnesty International parlava di “arbitrari arresti di massa e maltrattamento di prigionieri”. [2]
E tuttavia, con gli occhi del mondo puntati su di lui, Barack Obama rimaneva inamovibile: gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti.
Eh no cari, diceva il Saggio Presidente, non si poteva continuare così, con quest'ipocrisia da sinistroidi: criticare costantemente gli USA per essersi sempre impicciati dei fatti altrui, e adesso – tutt'a un tratto – mettersi a frignare perché non veniva alzato un dito per andare in soccorso al popolo dell'Honduras.
Oops, scusate: dobbiamo aver estratto questo file per errore!
Si cercava qualcosa – ovviamente – riguardo all'entusiastico interventismo nell'attuale situazione che ribolle e spaventa, laggiù, in quel della Libia... e guarda un po' tu che cosa ci va a capitare sotto gli occhi! Io e le mie mani maldestre! Vi chiedo umilmente scusa.
Ebbene sì, la roba che avete appena letto risale a un anno e mezzo fa, in quella cocente estate del 2009. Una giunta militare aveva fatto irruzione nel palazzo del presidente Manuel Zelaya nel cuore della notte, arrestando un presidente democraticamente eletto per installare un governo provvisorio, con a capo un tal Roberto Micheletti (certo: quando si tratta di dittature militari di stampo fascista, diciamo che un caro, vecchio cognome italico è un po' come un marchio di garanzia).
Il peccato mortale commesso da Zelaya, a quanto sembra, era stato di elevare il salario minimo sindacale – una mossa molto maleducata nei confronti delle multinazionali della frutta che nell'Honduras sottopagavano la loro manodopera (Dole, Chiquita, etc). [3]
La reazione al colpo di stato da parte del popolo dell'Honduras fu allora inequivocabile: gli honduregni rivolevano il presidente per il quale avevano votato; senonché il loro presidente non aveva più alcun controllo sulle forze militari che disinvoltamente sparavano del più e del meno sulla folla, pestando, arrestando e brutalizzando i cittadini solidali con Zelaya. Fu allora che, in mezzo a vaghe menzioni sulla necessità di lasciare che fossero gli honduregni a trovare il compromesso ideale per loro, che garantisse un solido e prospero avvenire, etc etc, il presidente Barack Obama fece questo discorso, che non siamo riusciti a resistere dal riesumare:

“Gli stessi critici che dicono che gli Stati Uniti non sono intervenuti a sufficienza sono poi le stesse persone che dicono che interveniamo sempre, e che gli Yankees devono andarsene dall'America Latina. Se questi critici ritengono appropriato che noi ci mettiamo improvvisamente e comportarci in modi che in un qualsiasi altro contesto essi riterrebbero ingiusto, allora penso che ciò sia forse indice di una grande ipocrisia nel loro approccio alle relazioni tra gli USA e l'America Latina”. [4]

Perché, sia chiaro a tutti: se c'è una cosa che il presidente Obama non sopporta, sono gli ipocriti.
Allora confrontate questo discorso - se vi va - con un altro, a proposito della situazione in Libia, fatto solo una settimana fa dallo stesso signore:

“Ciò di cui voglio essere sicuro è che gli Stati Uniti abbiano piena capacità di operare e agire, potenzialmente con rapidità, nel caso la situazione deteriorasse in modo da risultare in una crisi umanitaria, o in una situazione in cui civili senza difese si ritrovassero intrappolati e in pericolo”. [5]

Mio eroe! Piena capacità di operare e agire – per chi non lo avesse capito – significa spiegamento delle forze armate, in tutta la loro possenza.
Allora aiutateci Voi: una popolazione di sette milioni in America Centrale. Un'altra di sei milioni in Nordafrica. Entrambe risolute a cacciare lo spauracchio antidemocratico fuori dal palazzo del potere – o così ci è stato detto. Entrambe in pericolo – o così ci è stato detto.
Che cos'è che ha fatto sì che solo nell'Honduras non vi fosse alcuna fretta di assicurarsi “piena capacità di operare e agire”?
Vi prego, diteci che si tratta di qualcosina di più che l'essersi scelti il giusto PR manager!
Eh sì perché, vedete, la giunta militare del colpo di stato nell'Honduras ebbe perlomeno la lungimiranza di assumere un eccellente curatore d'immagine: tal Lanny Davis, esperto lobbista e (rullo di tamburi) da sempre PR manager della famiglia Clinton!
Ta-daaa!
Allora, sta veramente lì il segreto? È stato dunque questo l'errore del colonnello Gheddafi?
Tsk-tsk, Mu'ammar, quante volte ti è stato detto e ripetuto: prima bisogna assumere il giusto curatore d'immagine, poi – eventualmente – la “badante” sexy...
Lo ha imparato persino il tuo fedele Silvio!

[1] Army take street in Honduras - whiffs of Coup d'Etat, 26 giugno 2009, disponibile qui:
http://www.indymedia.ie/article/92883
[2] Photos and testimony of protestors show extent of police violence, Amnesty International, 16 agosto 2009, pubblicato su:
http://www.amnesty.org/en/for-media/press-releases/honduras-photos-and-testimony-protestors-shows-extent-police-violence-20
[3] John Perkins: Speaking of Democracy, Honduras, and President Obama, 5 agosto 2009; vedere:
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=PER20090805&articleId=14658
[4] Anna Aulova: Obama Knocks "Hypocrisy" of Honduras Critics, CBS News, 10 agosto 2009, reperibile qui:
http://www.cbsnews.com/8301-503544_162-5230498-503544.html
[5] Massimo Calabresi: Obama Refines Talk of Libya Intervention, Time, 4 marzo 2011, disponibile su:
http://www.time.com/time/nation/article/0,8599,2057191,00.html

Tuesday 8 March 2011

Dov'è Charles Fort quando c'è bisogno di lui?

di Rinaldo Francesca

Tra le numerose spiegazioni che sono state offerte sulla strana moria di pesci e uccelli che ha investito così distanti parti del nostro pianeta due mesi fa, dalla Svezia [1] all'Arkansas [2], nessuna – a mio parere - sembra più plausibile dell'interpretazione che traccia un collegamento tra questo enigma e il disastro ecologico causato dalla BP la scorsa estate. [3]
D'altronde, l'autore Ian R. Crane aveva già a suo tempo predetto, in un'intervista pubblicata su queste stesse pagine [4], che la catastrofe ambientale targata BP avrebbe avuto ripercussioni sull'ecosistema di aree ben distanti dal Golfo del Messico, a causa della Corrente del Golfo che avrebbe trasportato acqua piovana contaminata di Corexit fino in Messico settenrionale, nel Midwest degli Stati Uniti e ben oltre. Puntualmente, fenomeni allarmanti si sono verificati in quelle latitudini e ormai non è più necessario un genio, in questo caso, per collegare i puntini.
Non a caso questa spiegazione sembra l'unica ad essere stata accuratamente evitata dal programma televisivo italiano Voyager che, nell'episodio trasmesso il 17 gennaio, si interrogava per l'appunto sul misterioso fenomeno ("un vero rompicapo", a detta del presentatore).
Detto tra parentesi, solo nei tragici media italiani, dove sembra quasi che ci sia la legge non scritta di non lasciare mai trascorrere più di un quarto d'ora nel palinsesto senza che vengano citate un po' le Sacre Scritture, e dove per ogni tema da trattare di volta in volta c'è sùbito pronto il santino archetipico (sei scettico? Allora sei un po' come San Tommaso; ti ravvedi? Allora sei come San Paolo sulla via per Damasco, e via dicendo), solo in quelle squallide reti catechizzate si potevano sprecare preziosi minuti d'introduzione per lasciare la parola al visionario allucinato Giovanni evangelista, e alle sue cosiddette profezie nel suo folle libro l'Apocalisse.
Questo in una trasmissione che si ritiene "scientifica". Vedere per credere. [5]
Sia come sia, datemi pure del romantico sentimentale, ma non riesco a fare a meno di sentire la mancanza di una voce che, in questo contesto, sarebbe stata in altri tempi la massima autorità: mi sto riferendo al filosofo americano Charles Hoy Fort (1874 – 1932).
Una breve digressione per i cinefili: chiunque tra voi abbia mai visto il film Magnolia (1999) non può non essersi domandato quale fosse il collegamento tra quella bizzarra introduzione episodica di poco più di cinque minuti, all'inizio del film, e il resto della trama. Qual era lo scopo di mostrare tre leggende urbane, spacciate per "fatti" realmente accaduti, con il solo scopo di concludere, poco prima dell'inizio del fim vero e proprio: "Ci rifiutiamo di credere che questi fatti accadano per caso"?
Bene, si dà il caso che il regista del film, Paul Thomas Anderson, sia – o comunque sia stato, al momento della realizzazione di Magnolia – un avido lettore di Charles Hoy Fort, l'inventore dell'inspiegato e dell'inspiegabile, come alcuni lo hanno definito.
Certo, resta ancora da vedere fino a che punto Anderson avesse ben digerito l'opera di Charles Fort, un autore che, non avendo mai esitato a lasciar trapelare dai suoi scritti di essere ateo, o perlomeno agnostico, non scrisse mai niente che potesse far pensare a una sua convinzione che gli eventi per i quali la scienza non aveva una spiegazione fossero da inquadrarsi in un non meglio identificato disegno soprannaturale.
E, andando a ben vedere, anche gli episodi selezionati da Paul Thomas Anderson non fanno molto credito alla causa dei fortiani: il riproporre la leggenda del sommozzatore morto perché pescato in un lago da un veivolo antincendio e poi gettato nel bosco in fiamme assieme all'acqua per spegnere l'incendio – una leggenda tanto falsa quanto vecchia come il proverbiale cucco – è una mossa quantomeno dubbia, [6] né le si conferisce più credibilità assicurandoci che la notizia fu riportata sul Reno Gazette nel 1983 (abbiamo verificato: non è mai successo).
In realtà, nell'introduzione di Magnolia, l'unico episodio genuinamente fortiano (in quanto riportato sul libro di Charles Fort Talenti Selvaggi – 1932) è proprio quello che apre il film. L'evento viene narrato nel film come segue:
"Sul New York Herald, 26 novembre 1911, c'è la notizia dell'impiccagione di tre uomini. Vennero messi a morte per l'omicidio di Sir Edward William Godfrey, marito, padre di famiglia e gentiluomo residente di Greenberry Hill, Londra. L'uomo fu ucciso da tre vagabondi, il cui unico movente era la rapina. I vagabondi furono identificati come Joseph Green, Stanley Berry e Daniel Hill.
Greenberry Hill".
Vero, vero: anche in questo caso è bene verificare due o tre fatti: la vittima in questione si chiamava in effetti Edward Berry Godfrey e per il suo omicidio furono arrestati Robert Green, Henry Berry e Lawrence Hill... ma l'evento accadde nel lontano 1678!
Vi dirò di più: a tutt'oggi aleggiano il mistero e l'odore di cospirazione su questa storia, in cui Green, Berry e Hill potevano anche essere dei capri espiatori.
E per coloro che, come il sottoscritto, risiedono a Londra e si domandano dove mai si trovi questa fantomatica Greenberry Hill, ecco svelato il mistero: si tratta dell'antico nome di Primrose Hill, storica ed attule residenza di svariati milionari: mi sembra di averci scorto Robert Plant una volta e, per menzionare un milionario più illustre, Primrose Hill fu anche la residenza in cui Friedrich Engels visse per molti anni mentre, tra un bicchiere di Chateau Lafite e l'altro, metteva nero su bianco le orribili condizioni della classe lavoratrice (indubbiamente agevolato nel dedicarsi solo ai suoi studi dai notevoli proventi derivati dallo sfruttamento del lavoro minorile alla ditta tessile Ermen & Engels, di cui suo padre era maggiore azionista). [7]
Perdonatemi, avrete notato che ho l'abitudine di divagare.
Ciò che volevo dire è che, se da un lato sono grato a Paul Thomas Anderson per aver riproposto Charles Fort al grande pubblico, dall'altro preferirei che il regista americano avesse fatto meglio i suoi còmpiti.
Allora, scopriamo un po' chi era questo Charles Fort?
Per carità, non ho intenzione di competere con l'impeccabile biografia che si trova sul sito degli studi fortiani [8] (ebbene sì: il suo lavoro è stato ripreso e tuttora continua a essere rimpinguato da una "dinastia" di seguaci). Vorrei solo aggiungere una mia modesta interpretazione alla sua opera.
Per dirla in una frase: qui si parla di un uomo che rifiutava di farsela raccontare. Un uomo che non la beveva. E scusate se un sito chiamato Àp0ti ha commesso il peccato di aspettare così a lungo prima di dedicargli un pezzo.
Si sta parlando di un uomo che, a un certo punto della sua vita, si rese conto che, per troppi eventi dalla natura inspiegabile, le frettolose spiegazioni che la scienza presuntuosa di allora (di sempre?) pretendeva di dare erano decisamente sospette e puzzavano di storielle di comodo. A Fort non sfuggiva che suddette spiegazioni funzionavano solo purché si scegliesse di ignorare certi fatti, minimizzarne altri, ingigantirne altri ancora. Fu lui, nei suoi scritti, ad insistere nel collegare fatti che le onnipresenti "autorità", nella stampa e nelle accademie, rifiutavano di vedere come connesse.
Il suo sdegno per chi si arrogava la posizione di "autorità" – in qualunque campo questo accadesse – era sempre espresso con un'ironia abrasiva e uno stile ermetico non sempre facile da seguire. Ecco che cosa scrive di lui Stefano Panizza:

"Per la loro tradizionale forma mentis gli scienziati ufficiali tendono a respingere le storie di strani oggetti che cadono, liquidandole come burle o vere e proprie falsità. E se qualche scienziato ortodosso se ne occupa seriamente, di solito tira in ballo condizioni atmosferiche eccezionali, come le trombe d’aria che, come è noto, possono sollevare e far ricadere anche animali grossi come buoi.
Ma questa è una spiegazione tutt’altro che esauriente, visto che spesso vengono segnalate cadute di oggetti insoliti in giornate del tutto serene. E nemmeno le trombe marine, che secondo gli scienziati solleverebbero animali marini e li farebbero precipitare sulla terraferma, chiariscono questi eventi. Queste, infatti, in genere non riescono ad arrivare molto all’interno della terraferma per scaricare pesce fresco sulle pianure; per lo meno non è mai stato rilevato un caso simile.
La verità è che piogge di rane e di pesci si sono verificate sempre nel corso dei secoli e sono state puntualmente registrate.
Fort annotò una casistica infinita di eventi strani”.

Ricordate la misteriosa – e mai spiegata – pioggia di rane in Magnolia?
Ora, prima che vi affrettiate a pensare che il buon Rinaldo sia uscito di testa, e che improvvisamente abbia deciso di occuparsi di animali che piovono dal cielo – con le ben più pressanti emergenze del momento – vorrei solo specificare che non è tanto dagli eventi riportati, quanto dal metodo fortiano che ritengo ci sia sempre qualcosa da imparare. Si tratta, in soldoni, semplicemente di questo: diffidare sempre delle autorità e delle storielle che ci raccontano, essere sempre disposti a vedere collegamenti laddove apparentemente non ce ne sono e tenere una mente aperta e disposta a cambiare le proprie opinioni quando un fatto nuovo (e verificato!) si presenta a smentirle.
Scusate se è poco.
E anche a coloro che hanno storto il naso al mio uso della parola "filosofo", riferita a Fort (come può mai considerarsi tale chi non si è mai nemmeno occupato di empirismo ontologico? Tsk!), vorrei umilmente ricordare che le "autorità" (rieccole alla carica) che decisero a suo tempo quali pensatori dovessero o non dovesero essere inclusi nei programmi di filosofia che ci vennero impartiti al liceo – e che esclusero debitamente Fort – sono le stesse che ci inflissero filosofi con idee ben più balzane di Charles Fort (da Lucrezio, a Keplero, passando per Hobbes: scommetto che ognuno di voi ha la sua lista).
Al contrario, nei suoi scritti, aldilà dei puri fatti (e stiamo parlando di qualcosa come venticinquemila fatti inspiegabili, che Fort annotò pedissequamente, verificandone l'autenticità e collegandoli cronologicamente), si legge eccome un filo ricorrente di metodo filosofico. Citando ancora Panizza:

"La scienza isola i fenomeni e le cose per osservarli. La grande idea di Fort è che niente è isolabile. Ogni cosa isolata cessa di esistere. E la maggior parte delle cose vive in stati intermedi. Ad esempio tra il vivere e il morire ci sono altre fasi, come in cui un individuo non vive ma semplicemente si impedisce di morire. Lo studioso concepisce le cose come occupanti dei gradi, delle tappe nel percorso di conoscenza di un fenomeno. Non dobbiamo scegliere un fatto perché lascia tranquilla la ragione, ma considerare anche i fatti inquietanti perché sono tutti sfaccettature di non stesso accadimento. Non sono importanti solo gli avvenimenti, ma soprattutto i rapporti fra di loro. C’è un’ unità che sta sotto a tutte le cose e a tutti i fenomeni".

Spero che questo renda l'idea.
Certo, alcune teorie fortiane, quali il teletrasporto, o il Gran Mar dei Sargassi (che non mi metterò qui a esplorare) sono ancora, come dire, al vaglio. Ho però il sospetto che anche in questo caso Fort – la cui ironia non veniva sempre recepita da tutti – avesse intenzione di parodiare la scienza, mostrando come fosse semplice produrre, come facevano le "autorità", una qualunque teoria "tappabuchi" che, pur nella sua assurdità, sembrava convenientemente spiegare tutto.
Concedetemi qualche citazione da Fort in persona.
Da Lo! (1931):

"Ci sono naturalmente altre spiegazioni per i 'poteri occulti' dei bambini. Una è che i bambini, invece di essere atavici, possano essere occasionalmente più avanti dei loro genitori, mostrando promettenti poteri umani latenti, perché la loro mente non è ancora oppressa dal conformismo. Dopodiché vanno a scuola e perdono la loro superiorità. Pochi ragazzi-prodigio sono sopravvissuti all'istruzione".

Da Talenti Selvaggi (1932):

"Uno degli interessanti paradossi della nostra esistenza – che priva la matematica di ogni significato – è che un crimine moltiplicato per un milione diventi patriottismo".

"Beh [direte voi], se davvero esistono i maghi, allora come mai non sono i maghi ad aver acquisito il potere politico? Io non sono mica sicuro che non l'abbiano fatto".

Da Il Libro Dei Dannati (1919):

"La più semplice strategia sembra essere questa: non darsi mai il disturbo di combattere qualcosa: lasciare che siano piuttosto le sue parti a combattersi le une contro le altre".

"[...] nessuno ha mai veramente investigato una cosa, ma ha piuttosto sempre cercato positivamente di dimostrare, in positivo o in negativo, qualcosa di cui era già convinto in partenza".

Ancora convinti che quest'uomo non meriti di essere iscritto al pantheon dei filosofi?
Personalmente, la concezione di vedere ogni cosa come in uno stadio intermedio, e magistralmente espressa con la frase "Everything merges away with something else" (ogni cosa si trasmuta in – e si unisce con – qualcos'altro, per tradurla nell'inadeguata e ampollosa lingua italiana), è un'idea che mi aiuta ogni giorno e che – a voler ben vedere – vorrebbe Fort come colui che coniò il concetto del "Tutto È Relativo" nel 1919. Dove finisce una cosa e inizia un'altra? Dove mettiamo il confine? E non rischiamo forse di perdere tutto nel momento in cui inseriamo detto confine?
Quando mi capitò di leggere il biologo Jacques Monod che, nel suo celeberrimo Il Caso E La Necessità, s'interrogava su quali fossero i criteri che ci permettevano di dire che cosa fosse un organismo "vivo" e che cose non lo fosse (una domanda dalla risposta più difficile di quanto non si tenda a pensare), o Massimo Fini [9] che si interrogava su dove si trovasse il punto in cui finiva la democrazia e cominciava la dittatura e - in entrambi i casi - dove si dovesse mettere il confine tra l'una e l'altra cosa, solo un nome mi frullava per la testa: quello di Charles Fort. Ogni cosa si trasmuta in qualcos'altro.
Il filosofo americano Charles Fort giunse, a un certo punto della sua vita, alla conclusione che la Biblioteca Municipale di New York non aveva più nulla da insegnargli, e si trasferì a Londra con il solo scopo di poter avere quotidiano accesso al British Museum e alla British Library.
Ho bisogno di aggiungere altro?
Il suo appartamento si trovava al 39a di Marchmont Street – effettivamente vicino al British Museum; e anche a due passi da Russell Square e l'Hotel Russell, posti cruciali per quanto riguarda la cultura, la ricerca e... beh, tante altre cose, come si spera di rendere più chiaro in séguito.
Sul palazzo c'è una targa che recita: Charles Fort (1874 – 1932). Fondatore americano del Fortianismo, lo studio dei fenomeni anomali.

Rest In Peace

Rinaldo Francesca

[1] Vedere: More dead birds: Dead crows fall from sky in Sweden, The Examiner, 5 gennaio 2011, pubblicato qui:
http://www.examiner.com/cultural-oddities-in-national/more-dead-birds-dead-crows-fall-from-sky-sweden
[2] Vedere:
Nearly 3,000 Dead Birds Fall From Arkansas Sky, Fox News, 3 gennaio 2011, disponibile su:
http://www.foxnews.com/scitech/2011/01/02/dead-birds-fall-ark-sky/
[3] Maryann Tobin:
Dead birds and BP oil spill: Is there a connection? All Voices, 5 gennaio 2011, apparso qui:
http://www.allvoices.com/s/event-7811925/aHR0cDovL3d3dy5leGFtaW5lci5jb20vcG9saXRpY2FsLXNwaW4taW4tbmF0aW9uYWwvZGVhZC1iaXJkcy1hbmQtYnAtb2lsLXNwaWxsLWlzLXRoZXJlLWEtY29ubmVjdGlvbg==
Una versione in italiano si trova qui:
http://saigon2k.altervista.org/2011/01/2709/
[4] Vedere:
Ian R. Crane: BP, sostanze tossiche, decisioni inspiegabili e morti sospette,
http://ap0ti.blogspot.com/2010/12/ian-r-crane-bp-sostanze-tossiche.html
[5] La puntata è reperibile qui:
http://www.youtube.com/watch?v=8ORA-8BBeQo
[6] Per chi non la conoscesse, qui se ne trova una versione:
http://www.leggendemetropolitane.net/post/2003/09/04/Occhio-al-Canadair.aspx
[7] Michael Edwards:
Ten Years of War Against Poverty: What Have We Learned? 7 settembre 2010, pubblicato qui:
http://www.opendemocracy.net/michael-edwards/ten-years-of-war-against-poverty-what-have-we-learned
[8] Stefano Panizza:
Chi era Charles Hoy Fort?, disponibile qui:
http://www.centrostudifortiani.it/chi-era.htm
[9] Massimo Fini: Democrazia:
Il Grande Imbroglio. Una versione è disponibile qui:
http://www.anticorpi.info/2010/06/democrazia-il-grande-imbroglio.html

Thursday 3 March 2011

George: una fonte d'ispirazione per tutti noi

di Rinaldo Francesca

La cosa è ufficiale, cari amici: da due settimane a questa parte, il mondo è diventato un posto migliore.
Ve ne prego, lasciamo per un attimo da parte questi secondari traguardi della CIA che stanno oggidì colorando il Maghreb – ci saranno presto altre occasioni per celebrarne il successo: per oggi è ai traguardi storici - quelli a cui dobbiamo la nostra odierna libertà, sissignore – che rivolgiamo doverosamente lo sguardo. Poiché non sia mai detto che sfugga ad Àp0ti l'occasione di annotare nei suoi chronicles dei nostri tempi il solenne momento in cui entrambe le fazioni del Partito Remubblicratico degli USA hanno, anche nel 2011, gettato la maschera – pardon – accantonato le loro differenze, celebrando all'unisono la gioia di essere tutti su un unico, grande libro paga, e dando al popolo americano quello che a prima vista potrebbe sembrare un sonoro schiaffo in pieno volto (trattasi in realtà di uno sputo catarroso, seguito da una gioiosa risata, ci informa una velina appena giunta).
Ebbene sì, per coloro che pensassero che qui si sta vaneggiando: la splendida notizia – che ad alcuni tra Voi sarà già arrivata – è che l'attuale presidente Barack O. Bush (nella foto) ha, in data 15 febbraio 2011, consegnato al papà/predecessore George Herbert Walker Bush la prestigiosa Medaglia alla Libertà [1], in una commuovente cerimonia dove altri 14 meritevoli (tra i quali Angela Merkel e Warren Buffett) hanno ricevuto un simile onore. Sappiamo che siete sulle spine e fremete dalla voglia di sapere quali parole abbiano in qualche modo giustificato questo indecifrabile gesto. Orbene, eccovi accontentati:
Quando consegniamo [questa medaglia] all'ex-presidente George H W Bush, ciò vi dice che celebriamo una straordinaria vita di servizio e di sacrificio”. [2]
Sì, sì, lo so che cosa state pensando: troppo bello per essere vero, no? E infatti un po' è così.
Non mancheranno, naturalmente, i soliti barbuti sinistroidi mai contenti che, per il solo desiderio di guastare una festa a cui non sono stati invitati, avranno qualche obiezione alla consegna di tale medaglia a un uomo che nel 1990, tramite l'ambasciatrice April Glaspie, attirò Saddam Hussain nella trappola del Kuwait, [3] approfittando poi dell'invasione per aggredire l'Iraq e ridurlo ai minimi termini – nonostante la suddetta invasione del Kuwait da parte di Mr. Hussein non fosse poi così meno legittima rispetto a quella che lo stesso George H W Bush aveva condotto poco di più di un anno prima a Panama (Operazione Giusta Causa), causando migliaia di morti.
Beh, a questi rompiballe Àp0ti può solo dire: “Ma perché non potete semplicemente essere felici per la gioia di quest'uomo 'di servizio e di sacrificio', e lasciarlo un po' in pace a godersi i meritati allori di una fulgida carriera sotto l'egida della Società del Teschio e delle Tibie Incrociate (di cui si parlerà a breve)?”.
No, che volete che Vi dica, certa gente non è mai contenta, nevvero?
Per quanto ci riguarda, ci dispiace solo che l'ex-vicepresidente Dick Cheney, uomo di fiducia di George H W Bush – nonché, com'è noto, cugino di Barack [4] – non sia stato disponibile per un commosso commento a caldo.
E, già che ci siamo, magari sarebbe stato bello anche sentire i commenti delle famiglie delle 73 vittime dell'attentato al volo Cubana CU-455 nell'ottobre 1976, celebre strage che, come ormai è noto, fu perpetrata da terroristi addestrati e finanziati dalla CIA, e che avvenne – guarda caso – durante l'anno in cui il direttore della Agency era proprio George H W Bush, l'uomo “di servizio e sacrificio” (delle vite degli altri, presumibilmente).
Detto tra parentesi, fu veramente provvidenziale all'epoca che il direttore della CIA durante certe operazioni come l'attentato al volo Cubana CU-455 fosse anche al tempo stesso il proprietario delle piattaforme petrolifere della Zapata Offshore situate – guarda caso – proprio al largo di quelle deliziose isolette a nord di Cuba, e da sempre utilizzate come base per varie operazioni CIA. [5]
Che strano mondo di coincidenze, no?
Sia come sia, la morale di questo glorioso evento può solo essere una: potremo sempre continuare a sognare e sperare in un mondo come questo, dove le sorprese non finiscono mai, dove anche un underdog come Barack può conquistarsi l'ambito Premio Nobel, che fu a suo tempo dato a quel grande crimin... – pardon – uomo di pace Henry Kissinger, e dove il suddetto Barack può sdebitarsi con i suoi padroni appuntando loro questa magnifica medaglia sul petto.
Congratulazioni George: il “mondo libero” condivide la tua gioia. Alla faccia di chi ti vuole male!

Rinaldo Francesca

[1] Kori Schulman: President Obama Honors Presidential Medal of Freedom Recipients, 15 febbraio 2011, dal sito della Casa Bianca:
http://www.whitehouse.gov/blog/2011/02/15/watch-live-president-obama-honors-presidential-medal-freedom-recipients
[2] La trascrizione del discorso è disponibile qui:
http://www.cnnstudentnews.cnn.com/TRANSCRIPTS/1102/15/se.02.html
[3] Una minuta del discorso che April Glaspie fece a Saddam Hussein si trova qui:
http://www.chss.montclair.edu/english/furr/glaspie.html
[4] Cheney labelled 'black sheep' of Obama family, The Guardian, 17 ottobre 2007, http://www.guardian.co.uk/world/2007/oct/17/usa.barackobama
[5] Vedere Webster Griffin Tarpley and Anton Chaitkin: George Bush: The Unauthorized Biography. In particolare: Chapter 3 – Race Hygiene: Three Bush Family Alliances, reperibile qui:
http://tarpley.net/online-books/george-bush-the-unauthorized-biography/chapter-3-race-hygiene-three-bush-family-alliances/