Sunday 16 May 2010

Perché le correzioni non funzionano?

di Rinaldo Francesca

Concedeteci di cominciare con una citazione – più o meno fedele – dello storico show di satira mediatica The Day Today, concepito negli anni Novanta dalla perfida e geniale mente dell'autore Chris Morris:
“La settimana scorsa abbiamo riportato la notizia che il ministro del tesoro Michael Portillo si presenta agli incontri con un fucile a canne mozze, si apparta con bambini nei parchi per masticargli le guance e ha frequenti rapporti con animali randagi dichiarando: 'Purché abbiano una spina dorsale, a me vanno bene tutti'. Ci teniamo a precisare che questa notizia si è in realtà rivelata infondata”.
Ciò che Morris riusciva abilmente a dimostrare con questa pseudo-rivelazione di poco più di dieci secondi, era che messaggi di questa natura, piuttosto che provocare simpatia nei confronti della vittima di una calunnia, hanno inevitabilmente l'effetto contrario di imprimere nella mente del destinatario quella stessa immagine che vogliono in apparenza cancellare – in questo caso l'inquietante fotogramma di Michael Portillo nell'atto di rotolarsi nudo nell'erba con Lilli e il vagabondo.
Provate a negarlo!
In senso più generale, questo indicherebbe che una falsità, pur seguita da una smentita, avrebbe l'irreversibile effetto di rimanere depositata permanentemente nell'immaginario collettivo, sempre pronta a essere risvegliata dal sapiente uso delle corrette parole chiave.
Già molto è stato detto sull'assordante formato con cui negli ultimi anni sono state impacchettate le notizie dell'ennesimo complotto-terroristico-sventato-grazie-a-una-fonte-anonima, invariabilmente smentite mesi dopo in un trafiletto a pagina 13, quasi che per alcuni media la priorità fosse di terrorizzare il pubblico a intervalli regolari – imprimere l'immagine di cui sopra - nella consapevolezza che tanto ci sarà sempre tempo per una penosa smentita di lì a un semestre, accompagnata da vaghe scuse in sordina.
Ad esempio, il famoso complotto bioterroristco del ricino [1], “sventato” a Londra nel 2002, era perfetto da questo punto di vista in quanto aveva tutti i classici elementi del genre: una retata della polizia, una dozzina di arrestati – uno dei quali resistette all'arresto, accoltellando e uccidendo un ufficiale di polizia – una “fabbrica della morte” scoperta sopra a un'insospettabile farmacia e naturalmente le obbligatorie testate di giornali, che urlavano al pubblico britannico come un quarto di milione dei loro concittadini avesse evitato di un millimetro una morte orrenda per mano di un gruppo di spietati agenti di al-Qaida muniti di ricino; insomma, non mancava proprio nulla.
Tranne ovviamente il ricino, del quale non fu mai trovata traccia. O di qualcuno tra i sospettati che avesse la benché minima nozione di come estrarlo.
Uno dopo l'altro, tutti gli arrestati furono rilasciati senza lo straccio di un'accusa – con l'eccezione naturalmente dell'accoltellatore Kamel Bourgas.
Al processo, tutti gli altri furono scagionati. I giornali ci misero un altro annetto per aggiornarsi e ammettere un po' delusi che, ahimé, non c'era mai stato alcun complotto.
Per restare sempre qui in Gran Bretagna dove, nei sette anni che seguirono l'undici settembre, 1131 persone furono arrestate e successivamente rilasciate senza che si fosse trovato nulla a loro carico [2], l'Operazione Pathway, condotta dalla Metropolitan Police nell'aprile dell'anno scorso produsse simili risultati, con 11 studenti pachistani arrestati e rilasciati mesi dopo senza l'ombra di un'accusa. Esatto: totalmente innocenti. All'epoca dell'arresto, Gordon Brown non esitò a parlare di un “immenso complotto terroristico” [3]. Possibile che nessuno dei suoi advisors gli avesse consigliato di andarci un po' più cauto, considerando che gli indizi a carico degli studenti erano palesemente basati su congetture e false soffiate? O che Brown non avesse presagito possibili, imbarazzanti ritrattazioni, che infatti si dovettero puntualmente produrre solo sette mesi dopo?
E ancora: come non ricordare il glorioso momento in cui l'ex vice-presidente USA Dick Cheney venne colto in castagna a mentire spudoratamente su alcune fittizie rivelazioni, fatte da lui stesso?
Nel dicembre 2001 Cheney disse infatti a Meet The Press/NBC che “è un fatto confermato: [il dirottatore dell'undici settembre Mohamed Atta] andò a Praga per incontrare un ufficiale dei servizi segreti iracheni”. Nel 2004, quando la connessione 9/11 – Iraq cominciava a risultare sempre più demenziale, Cheney venne chiamato dalla stessa emittente televisiva a rendere conto delle sue affermazioni di tre anni prima; la sua risposta fu: “No, non ho mai detto niente del genere”. Un vero peccato per lui che per la NBC fu sufficiente riesumare il video dagli archivi per mostrare l'imbarazzante verità. Non abbiamo resistito a includere qui sotto una versione con le due comiche interviste a raffronto.

Anche in questo caso ci si chiede: dobbiamo veramente credere che la sinistra eminenza grigia dietro George W. Bush fosse convinta di farla franca, e che Cheney non si aspettasse di essere colto in flagrante come un bambino?
La storia è costellata di simili penosi episodi di ritrattazione o, in molti casi, discreti tentativi di far dimenticare con quanta insistenza i media e i politici avessero fino al giorno prima proclamato a gran voce questa o quella boiata all'indomani di una palese dimostrazione di quanto questi mitologici castelli di carte fossero basati sul nulla.
Una ritrattazione, d'altronde, si fa una volta sola; le menzogne che la precedono possono circolare per mesi ed essere pubblicate in centinaia di articoli prima che arrivi una smentita.
Quale delle due ha più chances di rimanere impressa nell'immaginazione collettiva, la menzogna o la smentita?
Provate a prendere per il bavero un passante per la strada – giusto per condurre un sociopatico esperimento di vox populi – e a domandargli chi fosse dietro all'attentato al papa del 1981. Fatta la dovuta scrematura di coloro che, togliendosi le cuffie dell'i-pod, vi domanderanno un po' stupiti di quale attentato stiate parlando, sarebbe interessante vedere a tutt'oggi quante persone vi balbetteranno qualcosa riguardo a un vago complotto di bulgari – non c'era di mezzo il KGB? - quel tizio turco, addestrato dai servizi segreti bulgari, etc etc; dopodiché chiameranno la polizia.
Dobbiamo alla giornalista Claire Sterling la sopravvivenza della spassosa fandonia denominata “la pista bulgara” e probabilmente al suo agente letterario, ansioso di spingere le vendite del celebre libriccino della Sterling, intitolato The Terror Network – 1981.
Questo libro, fondamentalmente un romanzo liberamente ispirato a fatti reali, tentava disperatamente di provare che dietro a ogni singolo attentato terroristico degli anni precedenti, indipendentemente dal luogo e dal perpetratore – OLP, ETA, IRA, RAF, BR, etc. - fosse individuabile la mano nascosta dell'URSS. The Terror Network divenne la bibbia dell'aministrazione Reagan, nonostante gli analisti della CIA sapessero perfettamente che dimostrare simili teorie “sarebbe stato impossibile perché molte delle informazioni nel libro provenivano da propaganda clandestina, ed erano state inventate dagli stessi agenti CIA per screditare l'Unione Sovietica” [4].
All'imperturbata Claire Sterling invece non sembrò vero di avere una nuova opportunità di reclamizzare il suo prodotto, inserendo doverosamente anche l'attentato al papa nel suo fantasioso schema di terrorismo internazionale targato URSS. La giornalista si mise dunque al lavoro, fiancheggiata da Paul Henze (il quale produsse per il Reader's Digest del settembre 1982 l'articolo The Plot to Kill The Pope) e diede alla luce il libro Time of the Assassins.
Le affascinanti teorie proposte in questi due capolavori seguivano il seguente favolistico sillogismo: l'attentatore Mehmet Ali Ağca aveva soggiornato brevemente in Bulgaria nell'estate del 1980; gli efficientissimi servizi segreti bulgari non potevano non essere al corrente dei suoi movimenti passati e futuri. Conclusione: i servizi segreti bulgari (e, indirettamente, l'Unione Sovietica) pianificarono l'attentato.
Lampante, no?
Poi si sa, una volta decisa la conclusione da trarre, si trattò semplicemente di selezionare quei rari fatti che in qualche modo potessero sostenere la bizzarra teoria, escluderne alcuni, distorcerne altri, et voilà. Poco importava se Ağca, tramite il suo network (quello vero) del gruppo di estremisti di destra turchi i Lupi Grigi, avesse in effetti soggiornato non solo in Bulgaria, ma in dodici paesi differenti prima di arrivare in Italia, o che i Lupi Grigi prediligessero la Bulgaria per i loro traffici grazie all'anonimato garantito precisamente dall'inefficienza della polizia bulgara (come il terrorista turco Abdullah Catli avrebbe confermato al suo processo a Roma, il 22 settembre 1985) [5]. Del resto si sarebbe sempre potuto contare su qualche zelante ufficiale dei servizi segreti italiani per produrre falsi dossier, quelli per cui l'Italia è leggendaria (vedere Nigergate), a dimostrazione della sconcertante teoria del momento; poniamo, il generale del SISMI Giuseppe Santovito, per esempio (tessera P2 No. 527), che diffuse prontamente un documento – successivamente rivelatosi fasullo – dove si leggeva che Ağca era stato addestrato in Russia.
Grazie per aver partecipato, Giuseppe!
Frottole del genere sono dure a morire e la disinformazione fa il lavoro per il quale è stata concepita: impiantare permanentemente un tarlo nel cervello, pronto a risvegliarsi a ogni momento con le parole: e-se-fosse-vero?
Suona familiare il nome di Arthur Scargill?
Presidente dell'Unione Nazionale dei Minatori (NUM) in Gran Bretagna fino al 2002, spina nel fianco di Margaret Thatcher durante lo sciopero dei minatori del 1984-85, in un periodo in cui la Lady di Ferro faceva del suo meglio per affossare definitivamente l'industria del carbone in UK, Scargill vide la sua reputazione devastata da una serie di articoli pubblicati da svariati tabloids – il Daily Mirror in particolare – in cui si blaterava che, proprio durante lo sciopero dei minatori, Scargill aveva ripagato il mutuo della sua casa con fondi donati dalla Libia e che aveva ricevuto un milione di sterline dalle sue controparti in Russia, “movimenti di fondi attraverso banche svizzere e irlandesi, in scatole piene di contanti trasportate nottetempo”.
Nessuna di queste storie conteneva un briciolo di verità, come si sarebbe scoperto anni dopo. Intanto però il danno era fatto, e le scuse ufficiali di chi prima aveva gongolato nel pubblicare queste “rivelazioni” ci misero dodici anni ad arrivare [6].
Ci si scuserà l'elenco parziale di cui sopra, sentitevi liberi di aggiungervi quanti più esempi vi vengano in mente di simili episodi di disinformazione a tutto volume, seguiti da smentite sussurrate.
Concedeteci però un ultimo campione di diffamazione, recente e tutto italiano; non tanto per quella patetica ossessione, tanto cara ai media italiani, di provare ad ogni costo che certo-che-noi-in-Italia-non-siamo-secondi-a-nessuno, quanto piuttosto per alleggerire il testo con un tocco di comic relief, ispirandoci alla tradizione del Rodeo, dove nei momenti di tensione arriva inevitabilmente il momento di far scendere in campo i clowns.
A Vittorio Feltri dunque, direttore de Il Giornale, da molti ritenuto un vero quotidiano.
Certo, non è qui il caso di ripetere le fasi della campagna diffamatoria che Feltri mise in piedi nell'agosto dell'anno scorso contro l'allora direttore de L'Avvenire Dino Boffo [7], colpevole di aver fatto notare che l'abitudine di Silvio Berlusconi di farsi recapitare a casa plotoni di ragazze squillo da un imprenditore coinvolto in compravendite di cocaina a botte di mezzi etti [8] potesse – come dire – non essere del tutto compatibile con la promozione di Family Days e simili amenità.
D'altronde Boffo faceva solo il suo mestiere, quello di assecondare i lettori del suo cattolico giornale, mentre Feltri faceva il suo: devastare la carriera di chi aveva osato criticare il suo padrone. Poco importa se lo scoop pubblicato su Il Giornale si è rivelato fasullo, risultando in una strisciante retromarcia di Feltri, con frasi del tipo: “Boffo ha saputo aspettare, nonostante tutto quello che è stato detto e scritto, tenendo un atteggiamento sobrio e dignitoso che non può che suscitare ammirazione” [9], con quella temerarietà che solo chi non si preoccupa di dove infila la lingua è in grado di mostrare.
Quello che importa è che la missione sia stata compiuta: Boffo non è più il direttore de L'Avvenire, né sono bastate penose scuse per annullare questo traguardo.
Questo porta nuovamente alla stessa domanda di prima: fino a che punto le ritrattazioni servono effettivamente a rimettere in carreggiata l'opinione pubblica, temporaneamente deviata da una falsa informazione?
Bene, due mesi fa la rivista Political Behaviour ha pubblicato i risultati di un paio di studi condotti tra il 2005 e il 2006 per stabiire esattamente questo. La premessa degli studi è la seguente: a 130 participanti era stata assegnata la lettura di un falso articolo, attribuito ad Associated Press e datato ottobre 2004, nel quale si riportava la necessità di un'appassionato sostegno della guerra in Iraq, citando anche un discorso – autentico – in cui George W. Bush insisteva sul rischio che Saddam Hussein potesse passare armi, materiali o informazioni al “network terroristico” internazionale (déja vu?). Vero, nell'articolo era anche presente una correzione in cui si specificava che questa leggenda era stata da tempo smontata, menzionando il rapporto CIA, realmente pubblicato e firmato da tale Charles Duelfer, dove si diceva che in Iraq non esisteva alcun programma di armi di distruzione di massa dall'inizio degli anni Novanta. Questa correzione però era stata inclusa solo nella versione dell'articolo distribuita a metà dei partecipanti, mentre l'altra metà aveva ricevuto l'articolo privo di alcuna smentita. È proprio qui che le cose si fanno interessanti, e ci si può fare un'idea di quali risultati siano emersi già dallo stesso titolo che è stato dato a questo studio: When Corrections Fail (quando le correzioni non funzionano) [10].
Attraverso un sistema di domande a risposta multipla, gli autori dello studio hanno constatato che proprio per quei partecipanti che avevano ricevuto l'articolo con la smentita – perlomeno quelli che all'inizio dello studio si erano dichiarati convinti dell'urgenza di disarmare Saddam Hussein – la correzione aveva avuto in realtà il contrario effetto di trincerarli ulteriormente nella loro convinzione che “immediatamente prima dell'invasione US, l'Iraq aveva un attivo programma di ami di distruzione di massa”.
Morale? Così a occhio e croce diremmo che questo ci conferma la tendenza dell'Homo Sapiens a ignorare quei fatti che non collimano con le sue convinzioni, mentre lasciamo ai biologi il compito di spiegarci come ciò sia il risultato di un qualche meccanismo di difesa, che ci costringe ad aggrapparci alle nostre certezze più radicate, soprattutto quando un nuovo elemento sembra minacciarle, etc, etc.
Lo accettiamo? Ammettiamo che, per quanto ci sforziamo di convincerci di essere tra coloro che modificano il proprio pensiero in base ai fatti, sembriamo finire invariabilmente a fare l'esatto contrario? O preferiamo continuare a negarlo, proprio perchè questa affermazione non collima con le nostre convinzioni?
Qual è la formula per evitare di cedere alla nostra natura di accettare passivamente qualsiasi favola, purché sia né più né meno di ciò che vogliamo sentire? Abbandonare ogni certezza?
Àpoti, fedele alla sua etimologia, non beve alcun intruglio di cui non conosce la composizione, e può solo basarsi su un'unica premessa.
Ogni affermazione potrebbe essere falsa.
Compresa quest'ultima.

Rinaldo Francesca, 16/05/10

[1] Un approfondimento sul complotto del ricino può essere trovato qui:
http://www.globalsecurity.org/org/nsn/nsn-050411.htm
[2] La cifra, pubblicata dall'Home Office il 13 maggio 2009,è reperibile qui:
http://security.homeoffice.gov.uk/news-publications/news-speeches/stats-terrorism-arrests
[3] Declan Walsh: Pakistani students fight to clear their names, The Guardian, 04/12/09, disponibile su:
http://www.guardian.co.uk/uk/video/2009/dec/04/pakistani-students-arrest-release
[4] Vedere video di Adam Curtis: The Power of Nightmares, Part 1, 52' 22''. Disponibile gratuitamente su
http://freedocumentaries.org/int.php?filmID=135
[5] Franco Scottoni: Il superteste accuse: 'Volevano comprarmi perché confermassi la pista', Repubblica, 22 settembre 1985, reperibile su:
http://www.azur.altervista.org/modules.php?name=News&file=print&sid=7584
[8] Angela Balenzano, Fiorenza Salzanini: L'estate di Tarantini: “Droga e affari nella mia villa”, Il Corriere della Sera, 10 settembre 2009, disponibile su:
http://www.corriere.it/cronache/09_settembre_10/tarantini_interrogatorio_0abda0fe-9dca-11de-8f8c-00144f02aabc.shtml
[9] Feltri ci ripensa: “Boffo va ammirato”, Il Corriere della Sera, 4 dicembre 2009, reperibile su:
http://www.corriere.it/politica/09_dicembre_04/feltri-riabilitazione-boffo-accuse-omosessualita_3701ca94-e0e3-11de-b6f9-00144f02aabc.shtml
[10] Brendan Nyhan and Jason Reifler: When Corrections Fail: The Persistence of Political Misperceptions, reperibile su:
Doverosamente non possiamo non menzionare anche Ben Goldacre, che ha diffuso lo studio apparso su Political Behaviour e ha pubblicato le sue conclusioni qui: