Sunday, 12 September 2010

Brown Sugar: dalla caramella al buco

di Rinaldo Francesca

Eh signora mia, che cosa ci vuol fare: certo che al giorno d’oggi non ci si capisce più niente, eh?
Tutti questi giovani che non fanno altro che prendere ‘ste droghe... ché poi si rovinano la vita, no? Colpa delle cattive compagnie, dice? Ah beh, sa com’è, su questo ci trova perfettamente d’accordo: tutta colpa delle cattive compagnie. Osiamo persino aggiungere che si tratta di grandi compagnie multinazionali, per giunta: senza fare nomi, per carità. D’altronde c’è sempre stata una certa tradizione sa, pensi alla britannica Compagnia delle Indie Orientali, che nell’ Ottocento controllava tutta la produzione d’oppio in India, e che mosse guerra alla Cina per costringerla ad importare questo lucrativo prodotto: sul finire del 1830 riuscì a creare qualcosina come 12 milioni di tossicodipendenti in Cina [1], il che – ce lo lasci dire – non è un traguardo da poco, eh?
Come dice, scusi? Aah, L’avevamo fraintesa? Lei in realtà parlava delle cattive compagnie a scuola? Ora La seguiamo, ci scusi. Lei intende dire che la colpa – stringi-stringi – ricade invariabilmente sui giovani (e su chi, altrimenti?) che spargono queste drogacce a scuola, e non certo su chi investe capitali su questo commercio e ne ricava i proventi (gente ben più matura, qualcuno ha voluto raccontarci), e che in banca non deve fare la fila perché – sa com’è – con gli introiti che deposita si guadagna la stima del direttore.
Lei dice, tutta colpa delle cattive compagnie a scuola, che insistono “E dài, e dài, e dài, fuma ‘sto spinello, fuma sennò non sei uno dei nostri”... ché poi lo sanno tutti che chi fuma lo spinello finisce inevitabilmente per iniettarsi l’eroina, no? Prima o poi...
Beh, ma lo sa che cosa abbiamo scoperto?
Si tenga forte signora, perché ci rendiamo conto che ciò che stiamo per dirLe potrà forse contraddire l'opinione corrente che tuttora circola in quei cenacoli di esperti che Lei frequenta, come il centro estetico, o l'atelier del parrucchiere; però se ci ascolta, Le promettiamo che ne vale la pena.
Beh, abbiamo scoperto due o tre cosette sull'antico assioma secondo cui lo spinello conduce alla siringa, sa? A quanto pare questa perla di saggezza risale al 1951, quando un signore chiamato Harry J. Anslinger, che per vent'anni era stato leader supremo dell'Ufficio Federale dei Narcotici negli Stati Uniti (FBN), raccontò quest'affascinante teoria, testimoniando davanti al Congresso. C'era molto in ballo, vede signora, perché si trattava di far passare una legge (nota come Boggs Act) che consegnasse più denaro e personale all'FBN – sotto le dipendenze del Dipartimento del Tesoro – per poter continuare la guerra contro la marijuana: non certo una cosa semplice, specialmente in quei tempi, all'indomani della pubblicazione di rapporti scientifici che – ahimé – sembravano provare una volta per tutte che la marijuana non conduceva alla follia, non deteriorava la salute fisica e mentale, non portava a commettere crimini e non provocava dipendenza [2]. Era quindi necessario, capisce, trovare un'altra scusa per poter continuare a demonizzare la cannabis, e così il nostro buon Anslinger inventò di... sana pianta (se ci perdona il gioco di parole) il concetto di spinello-anticamera-della-siringa.
Beh – Lei si domanderà giustamente – ma se questa storia non è mai stata vera, che motivo poteva mai avere questo Anslinger per raccontare frottole?
Chi lo sa, ipotizziamo, forse Anslinger aveva uno zio – tal Andrew W. Mellon – che oltre a essere il suo diretto superiore in quanto segretario del Tesoro, era anche un gigante della finanza e proprietario del gruppo T. Mellon & Sons (oggi conosciuto come Mellon Financial); e ancora – chissà – i maggiori investitori nella T. Mellon & Sons erano magari compagnie come la DuPont Chemicals, che prosperava fabbricando prodotti in plastica, gomma, nylon, Teflon, Kevlar e così via.
Che c'entra la plastica?
Beh, ma c'entra eccome, buona signora! Se lo immagina Lei che guaio sarebbe stato per la DuPont e affini se si fosse legalizzata la canapa, con tutti i suoi derivati? Immagini un po', vestiti, corde, spaghi, sacchi fatti di canapa sarebbero stati disponibili a un prezzo inferiore rispetto al nylon; con la canapa si sarebbero potute fare bottiglie, scatole, accessori che avrebbero resa inutile la plastica: eh sì perché vede, il petrolio – necessario per fabbricare la plastica, a quanto ci hanno detto - bisogna estrarlo, sa com'è, non è mai cresciuto sugli alberi; la canapa, a quanto pare, sì. Beh, sulle piante, via!
Fortunatamente per la DuPont e complici, il nipotino adottivo del signor Mellon, il suddetto Anslinger, sapeva fare bene il suo lavoro, eh? Oddìo, a essere proprio onesti, quando si vuole fare il lavaggio del cervello a milioni di persone, e si cerca di occultare la vera ragione per cui si stanno facendo carte false per demonizzare una piantina utile e innocua come la canapa (indica o sativa che sia), diciamo che essere soltanto bravi non basta. Magari aiuta molto se dalla propria parte c'è anche tutto un impero mediatico che possa far arrivare il messaggio nelle case della gente. Ma non Si preoccupi, sa? C'era anche quello.
Già, è vero, quasi ci dimenticavamo di William Randolph Hearst, il Signor Quarto Potere in persona, che di buon cuore mise i suoi non pochi strumenti mediatici a disposizione (giornali, riviste, film) per convincere il pubblico che un tiro di cannabis avrebbe trasformato chiunque in un vampiro, un licantropo, una mummia, un berlusconiano, o roba del genere...
Dài e dài, insomma signora, se si continua a ripetere la stessa boiata per vent'anni, prima o poi la si trasforma in dogma, no?
Beh, dirà Lei, se Hearst & Co. investì così tanti dei suoi milioni in questa campagna di disinformazione, vorrà dire che aveva a cuore la salute degli americani, no?
Ahimé, ci addolora doverLa contraddire anche su questo punto, ma l'unica cosa che stava veramente a cuore al sig. Hearst, dopo il suo impero finanziario e – forse – la sua famiglia, erano i suoi numerosi ettari di foresta su cui crescevano tanti begli alberi – materia prima per fabbricare la carta – e, vediamo se indovina... esatto, le sue parecchie cartiere. Eh sì, il sig. Hearst aveva il terrore della concorrenza della canapa, con cui è possibile produrre carta a basso costo: la maledetta piantina avrebbe mandato i suoi investimenti a quel paese. Fortunatamente però, con tutti gli agganci giusti e un capitale non indifferente, Hearst sapeva che sui suoi giornali avrebbe potuto pubblicare qualsiasi bufala, e il pubblico, prima o poi, se la sarebbe bevuta tutta d'un fiato. Non dimentichiamo, signora, che per il gruppo editoriale Hearst avevano lavorato alcune delle menti più sopraffine nell'arte di manipolare le opinioni delle masse: pensi solamente a Edward L. Bernays, inventore delle Public Relations, che nei ruggenti anni Venti aveva accettato la sfida lanciatagli dalle maggiori compagnie americane di tabacco (assieme a un grosso, grasso assegno) di aprire il mercato di sigarette alle donne e, in un colpo di tosse, voilà, era riuscito a rendere socialmente accettabile l'immagine della donna con la sigaretta in bocca [3]. Non si saprà mai quante morti per cancro ai polmoni causò l'affabile Bernays, ma per carità, non divaghiamo, qui si stava parlando di altre droghe, quelle illegali.
Un momento, un momento – Lei dirà – ma non è forse vero che sono stati condotti vari studi, doverosamente riportati sul tabloid di cronaca rosa di turno, dove vengono spiattellate statistiche, o roba del genere, che mostrano come un'impressionante numero di tossicodipendenti abbia iniziato la propria carriera con un tiro di cannabis?
Vero, vero, indubbiamente. Però è anche vero che questi studi – se mai sono stati fatti - si prefissavano di scoprire quale fosse la più probabile anticamera a crack & eroina limitando la loro ricerca solo a droghe più leggere che avessero un'unica, sola cosa in comune con quelle pesanti: quella di essere illegali. Questo, a quanto ci hanno voluto dire, ha un po' lo stesso senso di classificare le razze di cani in base ai mestieri che fanno i loro padroni. Non avrebbe forse avuto più senso – osiamo dire – allargare un pochino le vedute, e includere anche droghe che, pur essendo perfettamente legali, hanno molte altre caratteristiche in comune con le polverine dei tossici? Dipendenza, per esempio?
No no no, non creda di sapere dove vogliamo andare a parare: Lei sta pensando che – prevedibilmente – stiamo per lanciare un'arringa contro nicotina e bevande alcoliche. Giusto?
Beh, in effetti sì, la tentazione c'è; però ammettiamolo, sarebbe come sparare ai pesci in un barile.
No, si regga forte, perché la droga che abbiamo in mente è un'altra polverina: si chiama zucchero.
Tutto è cominciato un fatale giorno, quando siano incappati in una presentazione di un tal Robert Lustig, professore di pediatria clinica nella divisione di endocrinologia, e direttore del reparto WATCH, che combatte l'obesità nei giovani alla University of California, San Francisco. In un suo video, chiamato Zucchero: l'Amara Verità [4], il prof. Lustig sembra identificare nello zucchero - più precisamente nel suo componente fruttosio - la radice di alcuni tra i più tipici problemi di salute esclusivi della nostra epoca (in primis l'obesità). Il j'accuse di Robert Lustig è puntato su quella che lui chiama “la cospirazione della Coca-Cola”.
D'accordo, capiamo il perché del Suo improvviso fremito: ebbene sì, abbiamo effettivamente usato la parola “cospirazione”. Vorrà questo dunque dire che un sensore si è acceso da qualche parte nella galassia internet, e che anche questi nostri sparpagliati, innocenti pensieri finiranno presto sul radar di uno di quei siti dove la parola che comincia con la C è anatema, in quanto offende il Sacro Credo della Coincidenza? Poniamo – che so io – Perle Complottiste? O Straker Enemy? O uno qualunque di quegli adorabili websites che invariabilmente finiscono per regalare al visitatore quel piacevole senso di stupore nel constatare quanto numerosi siano nel web coloro (come li chiama la gioventù d'oggi? Debunkers?) che hanno decisamente troppo tempo libero a disposizione?
Piacesse al Cielo, signora mia, che anche a noi venisse consentito questo rito di passaggio – macché – onore; lo prenderemmo come una promozione.
Purtroppo però, se avrà la bontà di seguirci, vedrà che il prof. Lustig ha usato questo termine tongue-in-cheek, per così dire, scherzosamente. Temiamo quindi che anche per questa volta dovremo rinunciare a una nostra apparizione su uno di quei suddetti, ineffabili blog su cui imperano contributi digitati da tante, abili mani, a tutt'oggi sottratte a lavori più produttivi come l'azionamento di friggitrici da MacDonald's (forse complice – chi lo sa – la tradizione tutta italica di mantenere e sponsorizzare la prole fino all'età pensionabile).
Orbene dicevamo, la cospirazione della Coca-Cola: il prof. Lustig riesce a dimostrare un filo conduttore tra la mostruosa crescita dell'obesità nella popolazione statunitense negli ultimi 30 anni, l'aumento del consumo di fruttosio pro capite (dai 15 grammi giornalieri dei loro antenati – i Flinstones presumibilmente – ai 20 grammi durante la Seconda Guerra Mondiale, passando per 37g intorno alla metà degli anni Settanta, 70g negli anni Novanta, fino ad arrivare agli odierni 90g giornalieri nella “dieta” degli adolescenti americani) e la “coincidente” crescita del formato delle bibite gasate vendute ai ragazzini nei drugstores: in Zucchero, Lustig passa così in rassegna alle varie dimensioni delle bottigliette di Coca-Cola attraverso la storia. Tenga la calcolatrice alla mano, signora mia, e si ricordi che un'oncia fluida negli Stati Uniti equivale a 35.5 ml. Dunque, la bottiglietta originale da sei once e mezzo era venduta nel 1915, ma venne successivamente rimpiazzata da quell'altra, leggendaria, studiata per assomigliare a un fallo, sia alla vista che al tatto, e fatta per contenere 10 once: la fallica venne introdotta – pardon - nel 1955 (ah, che bei tempi: Il Selvaggio, Gioventù Bruciata, etc etc). Poi arrivò la lattina nel 1960 (12 once/33cl in Europa), seguita dalla bottiglietta in plastica del 1992 (20 once). Ma questo non è niente, visto che nei fast food è possibile ordinare la porzione da 44 once! In altre parole, ciò che viene considerato una singola porzione di soda pop è aumentato di più di sei volte nell'arco di 80 anni. La presentazione di Lustig prosegue esaminando le ramificazioni storico-politiche che hanno portato a questa evoluzione ma, per quanto interessanti siano le sue conclusioni, temiamo di doverle lasciare a un'altra volta: il dettaglio che ci ha fatto drizzare le orecchie è un altro.
In un'intervista con Stefan Molineux a gennaio di quest'anno [5], Lustig assicura che lo zucchero ha tutte le caratteristiche di una droga pesante; o, per meglio dire, le caratteristiche che consentono di classificare una droga come “pesante” sono, in misura minore, tutte presenti nello zucchero. Non ne manca una.
Le caratteristiche che determinano la “pesantezza” di una droga, nel caso non Se lo fossse mai chiesto, sono essenzialmente quattro: consumo incontrollato, derivato dall'assuefazione (bingeing), astinenza (withdrawal), voglia/desiderio (craving) e... si tenga forte per questa: sensibilizzazione ad altre droghe che danno dipendenza (cross-sensitization). Questo fenomeno viene studiato da anni per spiegare, ad esempio, come la caffeina scateni immediatamente nell'individuo la voglia di nicotina; chiunque sia quotidianamente vittima della “scimmia” da sigaretta sùbito dopo l'espresso della mattina può confermare.
Lustig, citando numerosi studi condotti, in particolare, alla Princeton University [6], ci informa che lo zucchero ha tutte queste caratteristiche. La cannabis no.
Dove vogliamo arrivare? Beh, signora mia, in mezzo a tutti i cosiddetti “studi” che sarebbero stati condotti per provare che dallo spinello si passa all'eroina, c'è mai stato qualcuno che si sia messo seriamente a cercare di spiegare perché gli eroinomani si contraddistinguano da una tendenza ad ingerire grosse quantità di zucchero [7]? O perché così tanti disintossicati sembrano gettarsi sui dolci una volta usciti dalla comunità di recupero [8]? O insomma, perché così tanti eroinomani di nostra conoscenza erano fissati con dolciumi già in tenera età?
Si ricorda di quel favoloso spot pubblicitario pagato da un qualche consorzio dei distributori italiani dello zucchero? “Il cervello ha bisogno di zucchero”, recitava. Chi l'avrebbe detto che questi bravi signori stavano aumentando le chances che i bambini di allora diventassero dei tossicodipendenti?
No, per carità, non vogliamo essere così dogmatici: preferiamo accantonare questi pensieri con una domanda aperta. È possibile che ogni volta che Lei comprava dello zucchero filato per i suoi bambini, o che riempiva il frigo di bevande zuccherate, Lei stesse effettivamente muovendo i primi passi di quelle creature verso la tossicodipendenza, più di quanto non avrebbe fatto se avesse offerto loro un tiro d'erba?
Non ci sogneremmo mai di fornire una risposta assoluta a questa domanda; preferiremmo non infrangere le Sue certezze.
Vuole fare un tiro, signora?

[1] Vedere per esempio:
http://www.maritimeheritage.org/newtale/opium.html
[2] Vedere il La Guardia Committee Report del 1944, disponibile qui:
http://www.druglibrary.org/schaffer/Library/studies/lag/lagmenu.htm
[3] Si legga per esempio questo interessante pezzo sulle “torce della libertà”:
http://tuttoiltempo.altervista.org/blog/2009/05/il-controllo-delle-menti-in-democrazia
[4] Il video Sugar: The Bitter Truth è reperibile qui:
http://www.youtube.com/watch?v=dBnniua6-oM
[5] The Politics of Obesity, reperibile su:
http://www.youtube.com/watch?v=YDiyHb-R9RI
[6] Vedere:
http://www.princeton.edu/main/news/archive/S22/88/56G31/index.xml?section=topstories
[7] Uno studio interessante:
http://www.antidrug.health.am/news/english/addiction/2543/
[8] Qualche altro spunto:
http://blogs.discovermagazine.com/discoblog/2008/12/10/move-over-heroin-sugar-addiction-may-be-a-reality/

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