Thursday, 23 August 2012

La fabbrica di notizie

di Rinaldo Francesca

Sapete, cari Àp0ti, tutto sommato mi ha fatto bene andare l'altro ieri al pannello di discussione “People Helping People”, al palazzo dell'ONU qui a Ginevra in occasione della Giornata dell'Aiuto Umanitario – avete presente, quelle belle parolone che è ormai impossibile digitare in un motore di ricerca senza veder spuntare il visino costernato di un'Angelina Jolie o una Beyoncé.
Non che non mi aspettassi che questo pannello, in cui era prevista una serie di botta e risposta fra reporters di zone di conflitto da un lato e organizzazioni internazionali in seno all'ONU e alla Croce Rossa dall'altro, non sarebbe sfociato in una panoplia di luoghi comuni come l'onnipresente imperativo del giornalisti di “catturare anche l'umanità” nell'ambito di un conflitto, “il lato umano”, “il sorriso di un bambino”, etc., etc... In gran parte così è stato.
Tuttavia mi ha fatto piacere vedere una dei reporters nel pannello, la svedese Gunilla Von Hall, lasciarsi andare a uno sfogo – della quale le sono grato – in cui del candore è finalmente emerso, in mondovisione per giunta. Questo rende ulteriormente l'idea – se mai ce n'era ancora bisogno – di come le notizie, riportate anche dai più infimi outlets in tutto il mondo, non provengano tutte che da un'unica, onnipresente fonte: l'unanime Corporate Media, la quale detta legge su che cosa – e in che modo – vada scritto. Questa spassionata ammissione ha per me più valore in quanto genuinamente di provenienza insider e dovrebbe rendere un'idea del perché si sia ristretto notevolmente negli ultimi anni il budget per i corrispondenti esteri, sempre più ridotti al ruolo di ripetitori della Linea di Partito. Grazie Gunilla.

Per visionare l'intervento, procedere al ventiseiesimo minuto di questo video. In basso trovate la traduzione.


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G. Von Hall: Vorrei dire una cosa riguardo al fatto che noi giornalisti tendiamo a saltare a pie' pari in una “situazione” e fare i nostri reportage da lì. Esiste un fenomeno, noto come “giornalismo paracadutato”, e questa è un tendenza che è venuta ad aumentare perché c'è meno denaro nell'industria dei media: c'è un numero minore di corrispondenti esteri, basati un po' dappertutto, e siamo quindi in pochi a dover andare ovunque e riportare I conflitti. Così ci paracadutano, e noi saltiamo nel mezzo di un conflitto; a quel punto seguiamo semplicemente I grandi Media – vale a dire BBC, CNN, Reuters, Associated Press, le grandi agenzie insomma – e sono loro a decidere l'agenda: molti tra noi le seguono – talvolta anche troppo acriticamente, secondo me – e i nostri editori semplicemente leggono ciò che scrive Reuters, per esempio, e allora ci dicono: “Questo è quello che scrive Reuters? Questa è la storia che scriverete anche voi”. Non facciamo altro che ripetere le nostre reciproche storie, invece di fermarci a riflettere, qualche volta, e magari domandarci: “Ma non ci saranno degli angoli che stiamo ignorando?” Invece, la maggior parte tra noi si occupa solamente delle 5 “D”: Dead (i morti), Dying (i moribondi), Deceased (i deceduti), Displaced (gli sfollati), Depressing (i deprimenti). Una volta che abbiamo coperto questi cinque angoli, via, veniamo mandati al prossimo conflitto più vicino, per coprire – ancora una volta – gli stessi identici angoli.

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