da http://www.blogghete.altervista.org
Nel dramma dell’Italia e del suo lento colare a picco nel mare del debito, mentre tutt’intorno emergono dalle acque le pinne dorsali a triangolo degli squali del FMI, la cosa più angosciante è la sensazione di totale abbandono che ogni passeggero della nave sperimenta quotidianamente.
E’ una sensazione che riguarda ogni ambito della vita politica e sociale. Il comandante si è rinserrato nella sua cabina, scruta fisso l’oceano che si avvicina metro dopo metro e non sa cosa diavolo fare. Così trascorre il tempo a cazzeggiare con i primi e secondi ufficiali, a lucidare le lampade argentate, a spolverare la poltrona di comando. Spesso si affaccia all’oblò e saluta sorridendo i branchi di squali che gli mostrano i denti dall’acqua sottostante, convinto che anche quello sia un sorriso. Tutt’intorno i passeggeri si accalcano alle scialuppe, si gettano in acqua tra le fauci dei pescecani, corrono come impazziti su e giù per i ponti, annegano nelle stive e nelle cuccette già invase dall’acqua. I timonieri superstiti suonano il violino. Il capitano prepara quietamente il discorso, ricolmo di pathos e di toccanti richiami alla democrazia e alla fratellanza, che dovrà tenere dinanzi al consesso dei pesci nei minuti che seguiranno. Sembra sicuro di riuscire a convincerli, con la sua abile retorica e la sua sopraffina strategia dialettica, a non divorarlo o perfino ad affidargli un battello con cui raggiungere la terraferma.
La settimana scorsa le Cinque Terre e la Val di Vara sono finite sott’acqua. E’ una zona splendida, forse la più bella d’Italia, che conosco e frequento da molte estati. Questo agosto avevo affittato una casa per le vacanze a Brugnato, in val di Vara, uno dei paesi finiti in bocca ai pesci con le piogge autunnali. Il paesino, originariamente insediamento montano dei monaci colombiani di Bobbio, era un piccolo miracolo di amministrazione virtuosa: con gli scarsi fondi che lo stato fornisce in tempi di naufragio, era riuscito a ristrutturarsi completamente e a diventare un polo d’attrazione turistica per l’intera regione. Casette ridipinte di giallo e di rosso, con un look vagamente svizzero; valorizzazione dei luoghi d’interesse storico e turistico; eventi artistico-religiosi sommamente suggestivi, come la festa del Corpus Domini, nel corso della quale il paese viene letteralmente moquettato da un tappeto di petali di fiori; eventi musicali e di animazione organizzati ogni sera nella piazza centrale. La casa che avevo affittato si affacciava proprio sul palco canoro, cosa che consideravo una gran rottura di zebedei, visto che fino a mezzanotte le cover band di De Andrè e Gino Paoli non mi lasciavano dormire. Ma era un miracolo, invece! Come aveva fatto un paese così piccolo, in epoca di vacche magre, ad amministrarsi con tanto criterio?
Ora osservo sconsolatamente sul web le foto dei luoghi in cui passeggiavo con le bambine quest’estate: sono sommersi dal fango, ricoperti di sterpi ritorti, costellati di carcasse di autoveicoli affastellati l’uno sull’altro dalla furia del fiume. Un tempo ci sarebbe stata una mobilitazione nazionale dei soccorsi, la stampa sarebbe inorridita, ministri avrebbero rischiato la poltrona. Oggi i ministri, tra una serata al night e un invito a Ballarò, discutono dei sogghigni di Sarkozy e della Merkel, mentre la gente di Brugnato scava tra i detriti delle proprie vite.
Ieri è toccato a Genova mutarsi in una riproduzione in scala urbana del suo celeberrimo acquario. Non è una novità, i genovesi mi dicono che da quelle parti le alluvioni sono un appuntamento fisso, come il Carnevale dell’Acquasanta. Quest’anno il carnevale, a giudicare dalle immagini che vedo sul web, sembra essere stato più vivace che negli anni passati, ma non è questo il punto. Il punto è che in cabina di comando si discute di terzi poli, di pomicini e di stracquadàni, mentre i pesci sguazzano per le strade. I capitani non si preoccupano minimamente del destino della città, ma al contrario elaborano imperterriti nuove strette sui finanziamenti, nuovi tagli, nuovi sacrifici con cui colpire i naufraghi che tentano disperatamente di restare a galla. Il capo dello stato, tuonando severo dall’alto della coffa, fa sapere che occorre un atto di responsabilità: non è più possibile deludere le aspettative degli squali, perbacco! Che figura ci faremmo con l’Unione Ittica Continentale?
A Roma, i treni dei pendolari vengono soppressi e quei pochi che restano sono presi d’assalto da torme di travet che si accalcano l’uno sull’altro per conquistare una speranza di salvezza, come l’equipaggio del Titanic. Ma le porte automatiche sono guaste, non si aprono, e i passeggeri più olimpionici devono entrare dai finestrini.
In tutta Italia si moltiplicano le manifestazioni e le piccole sommosse, a suon di striscioni, lanci di uova, imbrattamento graffitico di portoni, scasso di vetrine e abbrustolimento rituale di cassonetti. Lo si fa per protestare contro la voracità degli squali, che però stranamente non sembrano affatto allarmati da cotanto fracasso. Lo osservano immobili a pelo d’acqua, con gli occhietti vitrei che pregustano i lanci di derrate dalla cambusa, i bocconi di tumultuante scaraventato fuoribordo nella calca da assaggiare come antipasto. I caporioni del parapiglia osservano soddisfatti lo sfascio di vele e paratìe con cui hanno democraticamente espresso il proprio dissenso. Sulle loro schiene, sotto le magliette del Che, si notano strane escrescenze triangolari, che si direbbero pinne se non si trattasse di un pensiero assurdo e sicuramente fascista. Il capitano, a braccetto col cappellano di bordo, improvvisa una danza sul ponte, cantilenando la canzoncina che fa: “La violensa! Che brutta la violensa! Non cedete alla violensa!”. E tutti battono le mani.
Anche nel mio quartiere piove e siamo tutti in attesa dello straripamento del local ruscelletto, grazie al quale potremo finalmente dichiararci membri a pieno titolo della fratellanza di tritoni che popola oggi questa nazione pluviale. Nel frattempo, la posta ha smesso di arrivare. L’ufficio postale, visti i rincari sulla benzina, ha deciso di far viaggiare i suoi portalettere su biciclette e motorini, che però quando piove sono forieri di incidenti, polmoniti e assenze per malattia, assai fastidiose da gestire. Meglio dunque bloccare ogni consegna in attesa del bel tempo. In compenso continuano ad arrivare, in grande abbondanza, le cartacce pubblicitarie, i cui latori, in cambio di una scodella di minestra, lavorano con qualunque situazione meteorologica. La fame è madre dell’efficienza, proclamano i pescecani, con piglio austero. I capi ufficiali si guardano l’un l’altro con la bocca inarcuata a ferro di cavallo, annuendo vigorosamente col capo. Quanta saggezza in queste splendide bestie!
Nella scuola in cui ancora miracolosamente lavoro, diverse riunioni di classe sono già state tributate a problemi di fondamentale importanza didattica. Mancano i fogli per le fotocopie, che ogni insegnante propone di sostituire e/o razionare con i criteri più immaginifici. Mancano i soldi per fornire le ore di sostegno ai disabili gravi, ore già in parte coperte con personale delle cooperative di servizi, che costa molto meno di un insegnante specializzato. I genitori non hanno i soldi per acquistare i libri ai ragazzi e circa il 40% degli alunni del polo scolastico, a inizio novembre, è ancora privo dei testi didattici.
Siamo una scuola fortunata. Ho letto di istituti in cui anche gli insegnanti di italiano, matematica, inglese, iniziano ad essere sostituiti con il meno esoso personale delle cooperative. Nel mio futuro scorgo con chiarezza il caporalato didattico. Docenti di latino e di chimica si ritroveranno, alle prime luci dell’alba, nella piazza centrale del paese, in attesa del furgoncino della cooperativa che arriverà smarmittando per caricarli sul cassone a quindici per volta e poi trasportarli sui luoghi di lavoro. Forse il furgone sarà un vecchio 238 Fiat di colore beige, come quello che utilizzavo da ragazzo per sgomberare le cantine e guadagnarmi i primi soldini per l’affitto. Sarà come tornare giovani.
Mentre il transatlantico s’inabissa, l’orchestra continua a suonare, come da contratto. Ma è una musica aliena, attutita, distorta. Sembra uscire dai recessi dell’oceano e seguire uno spartito redatto da un Beethoven con le branchie. Qualche passeggero protesta per il repertorio, mentre gli squali, nel mare che si avvicina inesorabile, improvvisano in girotondo un’allegra danza andalusa. Gli ufficiali non comprendono le proteste, non le ascoltano nemmeno. Scrutano il contestatore con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, di chi ripone nelle mascelle degli elasmobranchii l’aspettativa di un futuro radioso. Cosa va blaterando questo folle? Non vede che i ristoranti sono pieni? E additano distrattamente, con deittica argomentazione, la superficie scura e gelida dell’oceano, dove un branco di pescecani dai denti scintillanti, satollo e imperturbabile, è già in procinto di ordinare il dessert.
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