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“Perché io dico poveri noi? Perché voi, il pubblico, ed altri sessantadue milioni di Americani, ascoltate me in quest’istante. Perché meno del 3% di voialtri legge libri, capito? Perché meno del 15% di voi legge giornali o riviste. Perché l’unica verità che conoscete è quella che ricevete alla tv. Attualmente, c’è da noi un’intera generazione che non ha mai saputo niente che non fosse trasmesso alla tv. La tv è la loro Bibbia, la suprema rivelazione! La tv può creare o distruggere presidenti, papi, primi ministri. La tv è la più spaventosa, maledettissima forza di questo mondo senza Dio. E poveri noi se cadesse nelle mani degli uomini sbagliati. […] Perché questa società è ora nella mani della CCA, la Communication Corporation of America […]. E quando una tra le più grandi corporazioni del mondo controlla la più efficiente macchina per una propaganda fasulla e vuota, in questo mondo senza Dio, io non so quali altre cazzate verranno spacciate per verità, qui!
Quindi ascoltatemi. Ascoltatemi! La televisione non è la verità! La televisione è un maledetto parco di divertimenti, la televisione è un circo, un carnevale, una troupe viaggiante di acrobati, cantastorie, ballerini, cantanti, giocolieri, fenomeni da baraccone, domatori di leoni, giocatori di calcio! Ammazzare la noia è il nostro solo mestiere.
Quindi, se volete la verità andate da Dio, andate dal vostro guru. Andate dentro voi stessi, amici, perché quello è l’unico posto dove troverete mai la verità vera! Sapete, da noi non potrete mai ottenere la verità. Vi diremo tutto quello che volete sentire mentendo senza vergogna: noi vi diremo che… che Nero Wolfe trova sempre l’assassino e che nessuno muore di cancro in casa del dottor Kildare! E per quanto si trovi nei guai il nostro eroe, non temete: guardate l’orologio, alla fine dell’ora l’eroe vince. Vi diremo qualsiasi cazzata vogliate sentire! Noi commerciamo illusioni, niente di tutto questo è vero! Ma voi tutti ve ne state seduti là, giorno dopo giorno, notte dopo notte, di ogni età, razza, fede. Conoscete soltanto noi. Già cominciate a credere alle illusioni che fabbrichiamo qui. Cominciate a credere che la tv è la realtà, e che le vostre vite sono irreali. Voi fate tutto quello che la tv vi dice: vi vestite come in tv, mangiate come in tv, tirate su bambini come in tv, persino pensate come in tv! Questa è pazzia di massa! Siete tutti matti! In nome di Dio, siete voialtri la realtà. Noi, siamo le illusioni. Quindi spegnete i vostri televisori, spegneteli ora. Spegneteli immediatamente! Spegneteli e lasciateli spenti! Spegnete i televisori proprio a metà della frase che sto dicendo adesso, spegneteli subito!”.
“Questa non è più una nazione di individui indipendenti, oramai. È una nazione composta da duecento e oltre milioni di esseri transistorizzati, deodorizzati, più bianchi del bianco, tutti profumati al limone: del tutto inutili come esseri umani, e rimpiazzabili come pezzi di un’auto.”
Monologo tratto dal film “Quinto potere” (1976) di Sidney Lumet
In memoria di Sidney Lumet (e di Orson Welles)
Considerando la grave e disastrosa situazione politica, ambientale, economica, finanziaria e culturale in cui versa il nostro sfortunato pianeta – sfortunato per aver incontrato il destino dell’uomo sul suo cammino – dovrebbe essere scoccata da tempo l’ora del rinnovamento e del cambiamento definitivo e radicale del paradigma dominante. Invece dietro il frastuono, il chiacchiericcio e la frenesia quotidiane si avverte ineludibile e implacabile il silenzioso deserto delle coscienze. Apparentemente da decenni viviamo e conviviamo in una condizione di letargo intellettuale e cognitivo, un sonno che accompagna i nostri passi, le nostre movenze, le nostre azioni e l’assenza di pensieri che siano autenticamente nostri. Nonostante la letteratura scientifica abbia da tempo coniato il termine “postdemocrazia”, mai come in questi anni siamo stati bombardati da sostantivi comodi, accomodanti e consolatori come “democrazia” e “libertà”. Siamo stati abituati sin troppo bene alle astrusità di teorici, politologi e sociologi come Fukuyama che, probabilmente su commissione, hanno trionfalisticamente ed entusiasticamente proclamato la “fine della storia”, con l’avvento di una società che per comodità possiamo etichettare con il termine abusato di “turbo capitalista”. Eppure… Eppure se i nostri posteri acquisteranno un giorno un’autentica consapevolezza degli accadimenti del nostro al mondo, sorrideranno pensando al passato e nei loro libri o saggi di storia descriveranno la nostra era come quanto di più lontano o distante possa essere concepito dalla normale nozione di democrazia e libertà dell’uomo. Forse non avranno remore a dipingere noi – disgraziati antenati – come una sorta di nuova classe di schiavi, che si è crogiolata e beata in una condizione di oppressione inconsapevolmente accettata. In effetti perché una società sia autenticamente democratica e riesca a promuovere e ad assecondare le naturali inclinazioni ed aspirazioni degli individui, occorre che coloro che la compongono siano cittadini, rousseauinamente educati e pensare ed agire secondo ragione e a concepire un interesse per quel bene comune che costituisce la reale essenza della politica genuinamente intesa. In poche parole sono necessarie l’istruzione, la cultura, una maturazione del senso estetico e un certo livello di benessere economico ma, soprattutto, “qualitativo”. Solo così l’uomo si può dotare di quella corazza che protegge dal quella latente fragilità che può sconfinare nella bestialità, nell’indolenza, nell’apatia, nell’indifferenza e nell’insensibilità. Per assurgere a tale e difficile condizione i comuni mortali che hanno a cuore sé stessi e “gli altri” sviluppano “naturali” relazioni sociali nel contesto familiare, a scuola, in ambito lavorativo, ecc… Tuttavia noi sappiamo bene – anche se forse inconsapevolmente – che “qualcosa” si è frapposto fra noi e gli altri, “qualcosa” che si è fatto schermo riflettente e barriera al tempo stesso impedendoci di afferrare la realtà da un lato e di aspirare a una cittadinanza ricca di contenuti dall’altro.
Come è potuto accadere ciò ?
Si tratta di un destino inevitabile, scritto nelle stelle ?
Oppure il prodotto dell’ingegno umano ?
Che la presenza di istituzioni rappresentative, democratiche e informate alla dottrina di separazione dei poteri non costituisse una garanzia veramente solida per i diritti individuali dei cittadini, era già stato intuito da un illustre e importante filosofo e storico francese, illuminista e di estrazione aristocratica, quell’Alexis De Tocqueville, precursore della sociologia moderna e autore del monumentale classico “Democrazia in America” scritto fra il 1832 e il 1840 e frutto di un’attenta e lucida osservazione dell’assetto sociale e istituzionale della giovanissima nazione che avrebbe dominato la scena internazionale dei secoli successivi. A differenza dei suoi contemporanei come Bonald e De Maistre, aristocratici e reazionari detrattori delle dottrine egualitarie, Tocqueville credeva nella possibilità di conciliare le libertà individuali con l’instaurazione di una forma di governo democratica. Figura a quel tempo unica nel panorama intellettuale, egli temeva che i tempi nuovi avrebbero potuto condurre a una nuova forma di tirannia non più fondata sul censo o sul privilegio, ma sul governo della maggioranza senza bilanciamenti o freni di sorta. Rispetto alle tendenze democratiche presenti negli stati europei, Tocqueville aveva ravvisato come negli Stati Uniti d’America fossero largamente diffuse quelle risorse sociali e istituzionali utili a porre un argine al potere della maggioranza, attraverso la proliferazione delle associazioni, il decentramento amministrativo e un forte spirito individualistico. Tuttavia, nonostante i toni ammirati presenti in alcune pagine, egli non potè fare a meno di registrare il conformismo dilagante nella popolazione americana, accompagnato dalla scarsità di spazi dedicati alla discussione. Quasi con spirito profetico e ancora degno di lettura e riflessione, quell’aristocratico francese aveva compreso – attraverso un’accurata descrizione ed analisi dei vizi e dei difetti delle nuove democrazie che si erano affermate nel Vecchio e nel Nuovo Continente – che la tirannia dei tempi moderni si sarebbe manifestato con un volto gradevole e paterno attraverso la promozione del conformismo e del benessere. Il padre “democratico” tende a mantenere i suoi figli in uno stato di perenne infanzia prendendosi cura dei loro bisogni e dei loro desideri. Con Tocqueville viene concettualizzata una schiavitù di tipo nuovo, qualcosa che opprime lo spirito di libertà rendendo gli individui indistinguibili nella massa e, perciò, relegando ai margini la cittadinanza autenticamente consapevole dei propri diritti. Per quanto autorevole, la voce di Tocqueville in quel tempo rimase isolata…
I decenni che, immediatamente, precedettero l’ingresso nel nuovo secolo ricco di promesse, furono complicati e difficili. Se da un lato i paesi europei erano attraversati da fermenti di progresso e di sviluppo che mai furono conosciuti a memoria d’uomo e il pensiero politico e sociologico lasciava largo spazio alle istanze ottimiste e progressiste del marxismo e del positivismo, qualcosa si muoveva da sponde insospettabili. Fondando la psicologia moderna e muovendo da una generale messa in discussione del paradigma “biologico” allora dominante nelle scienze psichiatriche, Sigmund Freud indagò le segrete forze dell’inconscio umano, sottratte alla ragione eppure così presenti nella vita degli individui, mentre il filosofo e filologo tedesco Friedrich Nietzche – che alla società consumista, edonista e del benessere, aveva dedicato le prime parole di fuoco – esaltò la dimensione eroicamente irrazionale degli individui facendone il fulcro di una concezione radicalmente antimoderna, antilluminista e antipositivista della storia. Al di là delle elucubrazioni delle varie ideologie e delle fedi religiose, il Superuomo è colui che dovrebbe realmente abbracciare la vita con tutto il suo peso e il suo dolore.
E’ in questa temperie culturale che nel 1895 lo psicologo e sociologo francese Gustave Le Bon scrisse la “Psicologia delle folle”, un discusso must della letteratura della psicologia sociale. Se per primo Sigmund Freud pose le basi teoriche della psicanalisi applicata agli individui, Le Bon fece altrettanto con le masse, le collettività e sicuramente tenne ben presente la lezione dello psicanalista austriaco. Secondo Le Bon l’identità individuale – e con essa la sua razionalità – si annulla a contatto con la massa che rappresenta un’entità a sé stante, dotata di una sua anima e di un suo inconscio. Grazie all’innegabile forza trasmessa dalla massa, i singoli acquisiscono un senso di onnipotenza e smarriscono qualsiasi cognizione di responsabilità. Essendo le masse le vere e inedite protagoniste della storia moderna e contemporanea, si può ben comprendere come per l’autore francese gli sviluppi della democrazia siamo connotati negativamente. Le masse sono necessariamente irrazionali e barbare, inclini all’emotività e alla violenza, poco e nulla propense a confrontarsi con le argomentazioni ragionate. Le caratteristiche naturali delle masse agevolerebbero la strada alla demagogia, al populismo e a quei leader che ben sanno solleticare le pulsioni delle folle. Infatti vero leader non è colui che espone fatti e argomenti con il supporto della logica e dell’evidenza empirica, ma, al contrario, propala al suo pubblico asserzioni e citazioni autoevidenti e semplici slogan che acquistano forza e credibilità proprio in ragione dell’”autorevolezza” dello stile adottato. Concepito come tentativo di mettere criticamente in guardia circa i pericoli insiti in nella società di massa, paradossalmente “La psicologia delle folle” finisce per imporsi come un utile manuale di manipolazione ad uso e consumo di demagoghi e dittatori. Il pamphlet suscita parimenti le lodi del reazionario e monarchico Maurras e del padre dell’anarcosindacalismo francese Sorel e viene attentamente letto dalle figure più rappresentative dei regimi totalitari degli anni Venti – Quaranta, Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini. In particolare quest’ultimo riconoscerà l’influenza esercitata dall’opera di Le Bon nel proprio apprendistato di dittatore fascista e artefice primo dei fondamenti dei fascismi.
Se i semi per far crescere le nuove piante della modernità erano già pronti ai tempi di Gustave Le Bon e di Sigmund Freud, bisognerà attendere ancora qualche tempo perché venga trovata l’acqua necessaria alla bisogna…
Fino a qualche tempo fa il nome di Edward Louis Bernays era poco conosciuto e suscitava l’esclusivo interesse degli studiosi del linguaggio e della comunicazione, eppure questo austro americano di enorme successo morto ultracentenario, rimane l’autentico profeta del tempo postmoderno, l’uomo che ha dato un senso ad espressioni come “manipolazione di massa” e “persuasione occulta”. Nato a Vienna nel 1892 e trasferitosi successivamente negli USA, Bernays era nipote del ben più celebre Sigmund Freud avendo suo padre sposato Anne, la sorella del padre della psicoanalisi. Sicuramente l’opera dello zio influenzò largamente la carriera di Bernays come pubblicitario. Dopo aver lavorato per un certo periodo come giornalista, venne chiamato del Presidente americano Woodrow Wilson insieme a Walter Lippmann per organizzare una campagna propagandistica in grado di convincere la recalcitrante opinione pubblica americana ad entrare in guerra contro la Germania e a fianco dell’Inghilterra durante la Prima Guerra Mondiale. Nell’arco di pochi mesi il duo riuscì ad instillare nella popolazione sentimenti antitedeschi talmente forti da consentire l’entrata in guerra dell’esercito americano agli inizi del 1917. La carriera di Bernays fu costellata da un gran numero di campagne propagandistiche e pubblicitarie di successo da meritare l’attenzione di governi e governanti sia “democratici” che totalitari, di uomini di affari americani e di svariate associazioni e fondazioni. Nel 1929, per incrementare la vendita delle sigarette e l’uso del tabacco, riuscì a far associare il fumo all’idea di emancipazione femminile organizzando un gigantesco corteo di donne fumatrici a New York. Lo strano corteo ebbe un tale riscontro che le vendite della Chesterfield raddoppiarono, mentre la Marlboro riprese la stessa idea con gli uomini. Inoltre il buon Bernays insinuò nelle menti degli americani l’idea che la colazione del primo mattino a base di uova e pancetta fosse legata alla tradizione, mentre in realtà fino agli anni Venti tali alimenti erano assenti dalle tavole delle famiglie americane. Edward Louis Bernays – assieme a Ivy Lee e a Walter Lippmann – creò la nuova figura professionale dello “spin doctor” o esperto delle Public Relations, colui che ha a disposizione le tecniche e le competenze per poter influenzare l’opinione pubblica – termine che verrà coniato proprio da Lippmann -. Lo scopo essenziale di uno “spin doctor” è quello di agevolare la vendita di un’ideologia, di un’opzione governativa, di una campagna civile di opinione, di un qualsivoglia prodotto o merce, influenzando le scelte dei destinatari. Non sorprende eccessivamente che questa professione riesca ad imporsi innanzitutto negli USA ove diviene la pietra di paragone e il modello per le successive generazioni. La particolarità di Bernays rispetto alla maggior parte dei colleghi con i quali condivideva i lauti compensi ricevuti dalle multinazionali e dalle corporations per l’ingegnosità dei meccanismi pubblicitari ideati per incrementare le vendite, stava nella sua pretesa di fondare una vera e propria scienza delle Pubbliche Relazioni, con le proprie regole e i propri rudimenti da trasmettere allievi desiderosi di apprendere. Amico piuttosto intimo del Presidente democratico Franklin Delano Roosevelt, divenne l’oggetto delle lodi del Ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels il quale rivelò ad un giornalista americano come le campagne del Partito Nazionalsocialista tedesco fossero ispirate al testo di Bernays “Crystallizing public opinion” . Al ministro nazista si deve peraltro la massima che “una bugia ripetuta una, dieci, cento, mille volte diventa verità”, sintetizzando così il senso dell’attività degli “spin doctor”. Dal punto di vista filosofico e teorico Bernays si rifaceva senza dubbio al concetto di inconscio elaborato da Freud, ma anche alle idee di Le Bon circa l’anima irrazionale delle folle e alle teorie di Wilfred Trotter. Il risultato delle sue esperienze venne da lui compendiato nel testo “Propaganda” (1928) ancor oggi illuminante, anzi, fin troppo dato che questo saggio datato è stato pubblicato in Italia solo due anni fa. Dalla sostanziale irrazionalità ed emotività delle masse ne consegue – secondo Bernays – il ricorso agli slogan immediati e alle immagini per guadagnarne il consenso. Inoltre Bernays è fra i primi ad avanzare l’idea di un “governo invisibile” che, in questo caso, possiede la capacità di tenere sotto controllo le masse plasmandone la mente ed influenzandone opinioni, comportamenti, atteggiamenti, inclinazioni, gusti, ecc… La società sarebbe nelle mani di coloro che sono in grado di suggestionare le masse a loro piacimento. Molto attivo in un periodo di grande sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (si pensi alla radio e al cinema soprattutto con i primi cinegiornali), Bernays ne intuisce le potenzialità per la professione. Per quel che concerne le convinzioni politiche del capostipite degli “spin doctor” – nonostante asserzioni di adesione alla democrazia – traspaiono piuttosto chiaramente concezioni elitarie e corporative in base alle quali un paese non può essere retto se non da una minoranza di persone competenti che possono indirizzare l’opinione pubblica grazie al lavoro dei professionisti delle Pubbliche Relazioni. E’ la “democrazia” di marca tipicamente americana e anglosassone che si estenderà nel mondo. Quanto alle prime tappe dello sviluppo dei nuovi mass media è lecito chiedersi se, per caso, il loro largo utilizzo avesse contribuito non poco a far precipitare il mondo in quella che rimane ancora oggi e a memoria d’uomo il più catastrofico dei conflitti del pianeta. Olocausto nazista, lager, gulag, fosse comuni, bombardamenti a tappeto sulle capitali europee ed asiatiche, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, ecc… V’è da chiedersi se tutto questo orrore sarebbe stato possibile senza l’irreggimentazione di masse intossicate e avvelenate da martellanti propagande d’odio…
Il periodo che segue, e percorre le umane vicende fino ad oggi non è più storia, ma appartiene alla dimensione pura delle cronaca, ancora da decifrare ed interpretare. Adottando una chiave di lettura marxiana della storia e, quindi, partendo dall’evoluzione della struttura economica, dobbiamo rilevare che le devastazioni prodotte dal secondo conflitto mondiale hanno determinato la necessaria spinta alla ricostruzione con tutte le conseguenze che ne derivarono. L’unica vera potenza vincitrice della guerra, gli USA, che rimpiazzarono la declinante Corona britannica, elargì i finanziamenti necessari alla ricostruzione delle nazioni europee occidentali attraverso il Piano Marshall. L’enorme ammontare di capitali che venne impiegato per far “rinascere” la Vecchia Europa occidentale costituì un potente stimolo allo sviluppo del capitalismo che mutò pelle nell’inedito ed emergente neocapitalismo. L’austerità del capitalismo “puritano” delle origini, descritta e analizzata efficacemente dal sociologo Max Weber, non rispondeva più alle necessità imposte dall’accumulazione del boom economico mondiale. Da un lato una sempre maggiore quota di capitali venne sottratta alle attività genuinamente industriali e produttive per essere destinata alle manovre speculative, alla conquista dei pacchetti azionari, all’occultamento di fondi nei cosiddetti paradisi fiscali, alle logiche delle Borse e dei Cambi, ecc… Dall’altro, sul versante dei lavoratori e dei fruitori dei prodotti finiti, la crescita relativa dei redditi e l’acquisizione di merci utili alla liberazione del tempo da dedicare al lavoro – si pensi agli elettrodomestici – rendevano effettivamente e maggiormente disponibili lo spazio e il tempo per i consumi voluttuari e superflui. La società basata sulla produzione e sul lavoro – con le sue regole anche rigide e apparentemente immutabili – venne necessariamente ridefinita dall’individualismo, dal consumismo e dall’edonismo sempre più imperanti. L’identità degli individui, definita prima dal contesto produttivo, venne sempre più plasmata dalle dinamiche appartenenti al tempo libero e dedicato al consumo.
Dal punto di vista delle conseguenze inerenti le gerarchie sociali l’evoluzione neocapitalista comportò l’egemonia della superpotenza americana grazie al rafforzamento del complesso militare ed industriale e alle possibilità concesse dai cordoni della Borsa attraverso Wall Street e l’affermazione della classe, anzi Superclasse, di mercanti e “commercianti”, venditori i cui nomi sono celati nei pacchetti azionari di controllo delle multinazionali e corporations che - talvolta in competizione, talaltra in regime di accordo oligopolistico – “commercializzano” le risorse strategiche del pianeta.
A mio giudizio tutta la cronaca recente dovrebbe essere letta e interpretata alla luce dell’affermazione mondiale del Mercato come sistema economico e come paradigma culturale ed antropologico: la globalizzazione altro non è se non l’espansione del Mercato – con le sue multinazionali, i suoi venditori, i suoi consumatori, ecc… - all’intero pianeta. Un Impero non più territoriale, ma, anzi, spesso transnazionale e, addirittura, “immateriale”. Ai blasoni e gli stemmi delle casate aristocratiche subentrano i logo delle grandi imprese industriali, commerciali e finanziarie. Conseguentemente anche gli eventi di grande portata economica, politica e militare dovrebbero essere guardati tenendo bene a mente le dinamiche di questa aggressione esercitata su nazioni e popoli. Se la Guerra Fredda non è quel confronto fra Superpotenze (USA e URSS) rappresentato comodamente dai libri di storia, ma la narrazione della sistematica e costante linea di conquista ed espansione dell’Occidente nei confronti del blocco sovietico dell’Europa dell’Est, la decolonizzazione offrì la gigantesca opportunità di avanzare una forma più sottile e penetrante di colonialismo che, pur riconoscendo l’indipendenza dei nuovi paesi emergenti in Asia, in Africa e America Latina, veniva esercitato grazie al controllo dell’economia – vedi i debiti e le politiche di “aggiustamento strutturale” – e delle risorse naturali. Non deve stupire, quindi, che le varie amministrazioni statunitensi si siano concentrate sulla costruzione della più poderosa e capillare macchina bellica e di conseguenza terroristica che mai l’umanità abbia conosciuto e che in ogni continente siano insediate basi militari della NATO. D’altronde, dagli anni successivi al Secondo Conflitto Mondiale ad oggi, azioni militari, paramilitari psicologiche, propagandistiche e realmente terroristiche non sono state attuate solo nei confronti dell’URSS, ma soprattutto, contro quegli stati del cosiddetto Terzo o Quarto Mondo che hanno rifiutato di sottostare alle logiche del Mercato adottando ora politiche di stampo socialista, ora di matrice nazionalista…
Se il mondo tende ad assomigliare sempre più ad un Mercato ove ogni oggetto, pensiero, idea, ecc… viene sistematicamente commercializzata e dove ogni rapporto si configura come relazione fra venditore e consumatore, la pubblicità non può che costituire la linfa vitale del sistema. Perché un prodotto venga venduto e fruito è necessario renderlo desiderabile e attraente agli occhi e al palato del consumatore e, perciò occorre mettere in campo strategie di marketing in grado di conquistare la mente e il cuore dei clienti. Mai come in questo ultimo mezzo secolo si è assistito a un tale sviluppo della pubblicità e dei mezzi a cui essa fa ricorso. Si affermano le professioni dei pubblicitari, dei creativi, dei designer, ecc… lautamente pagate grazie agli utili di impresa. La pubblicità diventa onnipresente e invadente perché tale è il Mercato sempre più globalizzato. Si pensi, a titolo di esempio, alle elezioni “democratiche” della postmodernità: una mercato dei voti contesi da partiti e movimenti politici con il sempre più frequente ricorso a quelle strategie tipiche del marketing pubblicitario. Non contano le argomentazioni, ma la veste esteriore con cui un messaggio viene lanciato.
Naturalmente l’utilizzo di tecniche pubblicitarie sempre più efficaci e penetranti è reso possibile dallo sviluppo ulteriore dei mass media e, in primis, della televisione che, oltre ad offrire un’inedita forma di intrattenimento per le famiglie, si impone subito come veicolo impressionante di messaggi pubblicitari. Nel chiuso delle mura domestiche penetrano immagini rassicuranti, distensive e accattivanti sull’ultimo modello di automobile o sulla nuova bibita gassata. La rapida diffusione e popolarità del mezzo televisivo impone una più generale riflessione sul rapporto fra i nuovi mezzi di comunicazione di massa, l’inedita “cultura dell’immagine” e la sempre più estesa società dello spettacolo…
Fu l’intellettuale situazionista francese Guy Debord a coniare il termine “società dello spettacolo” per rendere l’idea di un sistema sociale e culturale – quello neocapitalista, appunto – pervaso dalla imperante dimensione della rappresentazione e dell’immateriale. Se è ancora impresa ardua stabilire con certezza se fin dagli anni Sessanta – quelli di maggior diffusione delle idee e dei concetti elaborati dal movimento situazionista e dalla Nuova Sinistra – il panorama delle società occidentali era dominato dalla onnipresenza dei meccanismi spettacolari e della rappresentazione, nondimeno bisognerà riconoscere che la tendenza all’espansione dell’industria dello spettacolo, dell’intrattenimento e del divertimento inizia all’incirca in quel periodo. Tale fenomeno si verifica per una serie di fattori fra loro interconnessi in una certa misura. Già abbiamo accennato al fatto che l’iniziale spinta alla crescita del neocapitalismo – fin dall’immediato Dopoguerra – determini un più generale aumento dei redditi e all’espansione del tempo libero o liberato dal lavoro nelle società occidentali. Conseguentemente gli individui finiscono per dedicare una quota assai maggiore del loro tempo e delle loro risorse al divertimento, allo svago, al gioco e, quindi, alla visione degli spettacoli sotto diverse forme – teatrali, cinematografiche, televisive, musicali, ecc… - In secondo luogo la dimensione “spettacolare” della società odierna viene accentuato dallo sviluppo senza precedenti dei mass media. Dalla radio e dal cinema all’innovazione rivoluzionaria rappresentata dalla televisione… Fino all’industria dell’home video (videoregistratori, lettori DVD e PC) degli anni Ottanta e alla più recente ondata multimediale con Internet, il digitale terrestre e la televisione “pay per view” e i nuovi prodotti “tascabili” (cellulari, iPod, MP3, ecc…). L’industria culturale (o sottoculturale) e dello spettacolo veicolata dai nuovi media finisce per assolvere innanzitutto tre funzioni rilevanti. Conquistando fette sempre maggiori di mercato, essa si impone come fonte impareggiabile di profitto ed investimento. Se una massa enorme di capitali viene impiegata nell’informazione, nei media e nello spettacolo, significa che il ritorno economico è assai più ampio. In secondo luogo, attraverso i media si inviano messaggi pubblicitari utili per lanciare altri tipi di prodotti che il pubblico sarà ben disponibile ad acquistare. Infine, come più volte rilevato dal linguista Chomsky, gli spettacoli e i divertimenti assortiti distolgono il pubblico dall’impegno civile e dall’attenzione verso le problematiche che dovrebbero interessare la cittadinanza. Questo aspetto è assai gradito a chi detiene potere e ricchezze e può essere riassunto nella massima latina “Panem et circenses”, ovvero come gestire le masse, la loro volubilità e la tendenza al malcontento. In fondo è un altro bel modo per addormentare le coscienze…
Dal punto di vista strettamente sociale o sociologico, l’affermazione dell’industria dello spettacolo e del suo enorme mercato comporta alcuni importanti cambiamenti nella gerarchia sociale. La crescita esponenziale degli introiti del settore conduce ad una concentrazione delle imprese e delle società ormai divenute gigantesche multinazionali editoriali – massmediatiche – spettacolari. I celebri esempi della News Corporations di Murdoch e i suoi innumerevoli addentellati nel giornalismo, nella televisione e nel cinema o il nostrano impero Mediaset di Berlusconi e famiglia (canali televisivi anche all’estero, distribuzione e produzione cinematografica, calcio, ecc…) non esauriscono l’interessante panorama che, per essere indagato e sceverato esaustivamente – richiederebbe molto tempo e spazio. Basti ricordare come il controllo di una multinazionale dello spettacolo è capace di donare un’influenza pari a quella esercitata dai colossi dell’industria energetica e petrolifera.
Inoltre i profitti generati dal settore conferiscono, poi, un rinnovato prestigio a quella che mi preme definire come la classe dei “professionisti dell’intrattenimento”, nonché a un aumento notevole dei relativi compensi. Intellettuali o esperti a gettone, i conduttori di talk show, professionisti del sensazionalismo giornalistico, scrittori di best seller letterari, presentatori televisivi o radiofonici, anchorman, cantanti rock, pop o folk, registi o attori televisivi o cinematografici, calciatori, piloti o altri divi dello sport, comici, il concorrente di quiz o reality, l’ospite televisivo, soubrette, veline, pornostar, ecc… Adottando l’accezione più ampia della categoria, ognuna delle figure summenzionate indossa le vesti del “professionista dell’intrattenimento”, essendo remunerato per divertire e sollazzare il “suo” pubblico. In tempi antichi ma non troppo remoti saltimbanchi, giocolieri, acrobati, ecc… - ovvero i corrispettivi degli odierni “professionisti dell’intrattenimento” – venivano relegati quasi ai margini della scala sociale al pari dei vagabondi e degli zingari. Un salto notevole e degno di nota, non v’è dubbio…
Per quanto riguarda il terzo anello dei rapporti “massmediatici”, quello più debole del pubblico, occorrerebbe mettere a fuoco categorie e concetti di ordine antropologico, culturale e, naturalmente, psicologico piuttosto che di tipo sociologico o economico. In Italia – fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta – è stato il poeta e regista Pasolini il primo ad imbastire un discorso articolato e complesso sulla trasformazione antropologica del popolo italiano provocata dall’affermazione dell’edonismo consumista soprattutto attraverso la televisione e i linguaggi pubblicitari. Tuttavia, ancor oggi, si attende uno studio accurato e scientifico ma critico sulla mutazione degli individui nella società dello spettacolo. A mio parere, per comprendere meglio la portata epocale del fenomeno, non si può prescindere dalla generale trasformazione dei modelli di comunicazione e del linguaggio. La storia dell’umanità è, per la sua gran parte, contrassegnata da sistemi e codici linguistici che fanno riferimento all’oralità e, successivamente, alla scrittura. Per quanto l’immaginazione e il ricorso alle immagini abbia sempre caratterizzato la vita quotidiana degli individui, invece, non è mai stata messa a punto una colonizzazione dell’immaginario come quella recentemente esperita. L’uomo attingeva alle sue risorse interiori e mentali per ideare e mettere a punto il suo bagaglio di fantasia e visioni. Ciò lascia ampio spazio alla creatività individuale e, in ultima istanza, alla libertà. Si pensi, ad esempio, alla poesia, alle immagini poetiche o alle fiabe antiche che permettono agli infanti di esercitare a buon diritto l’immaginazione per riempire i dettagli delle storie. L’evoluzione massmediatica di quest’ultimo secolo, invece, ha imposto una “cultura dell’immagine” e, quindi, la conseguente occupazione degli spazi mentali riservati alla creatività e all’immaginazione individuale. Dal cinema e dalla televisione fino alla recente rivoluzione dell’home video e della multimedialità, la “cultura dell’immagine” ha concorso a deprimere le umane capacità e possibilità. Non solo l’immagine artificiosa e imposta dall’esterno scaccia ed esclude quella che scaturisce spontaneamente e naturalmente dall’individuo dissolvendo le sue risorse creative, ma agisce anche sulla razionalità. L’immagine non richiede di essere elaborata, analizzata e interpretata come accade per la comunicazione scritta, ma al contrario deve essere assorbita e assimilata senza alcuna mediazione. La potenza delle immagini fa leva sulla parte irrazionale ed istintuale degli individui, come già avevano rilevato a loro tempo Le Bon e Bernays. Oggi il problema non è, però, dettato dalla presenza di immagini artificiali e artificiose, ma dalla loro invasività e dalla loro moltiplicazione. Ovunque nello spazio del mondo postmoderno si popola di immagini e messaggi pubblicitari – dalla cartellonistica ai grandi schermi allestiti nelle piazze passando per la presenza di apparecchi televisivi negli esercizi commerciali – che si impongono necessariamente alla vista degli astanti. Probabilmente non è più tanto corretto parlare di persuasione occulta e messaggi subliminali, perché ormai le immagini hanno talmente occupato le nostre vite da far coincidere l’esistenza con i messaggi fatti passare attraverso i vari mass media. Semplicemente le immagini non hanno solo colonizzato e occupato le nostre menti, ma lo spazio reale e fisico in cui svolgiamo le nostre attività quotidiane. E’ quel trionfo del “virtuale” illustrato a suo modo nel film “Matrix”.
L’ultima frontiera dello sviluppo dei mass media e della diffusione della “cultura delle immagini” prende il nome di interattività, ovvero del coinvolgimento diretto del pubblico negli spettacoli offerti dai prodotti massmediatici. Le ultime innovazioni in fatto di multimedialità – telefonini, webcam, la nuova generazione di videogames, i social network, ecc… – prevedono l’interazione diretta dei fruitori. A ciò si aggiunga la novità televisiva dell’ultimo decennio rappresentata dai reality show con la partecipazione di quelle persone comuni che, un tempo, facevano parte esclusivamente del pubblico. Tali novità hanno indotto molti a credere finalmente in una sorta di “democrazia virtuale” ove il cittadino comune può finalmente esprimere e manifestare i suoi pensieri, le sue opinioni, le sue emozioni e i suoi sentimenti, nonché dare sfogo alla sua creatività. L’uomo comune può esibire il suo corpo, può improvvisarsi regista, attore e cantante, può diventare inaspettatamente un opinion maker amato e seguito, ecc… Tale “democrazia virtuale”, però, altro non è se non illusione, perché lo spazio fisico e mentale è già stato occupato dalle immagini scaturite dai mass media e, quindi, da coloro che detengono la proprietà e il controllo del mercato editoriale – informatico – informativo - massmediatico – spettacolare. Altri fissano le regole del giuoco a cui dobbiamo giocare… Forse, come affermava il vecchio Howard Beale ne “Quinto potere”, non può esserci salvezza se non spegnendo i nostri apparecchi… E ritornare così a coltivare un’esperienza diretta con le cose che ci circondano e che popolano il mondo… Occorre abbattere il muro di “Matrix”…
Occorre ribadirlo con forza… L’impero mercantile e quel paradigma ideologico neoliberista imposto dalle grandi concentrazioni finanziarie, bancarie, industriali e commerciali, ovvero dalla classe dei nuovi mercanti, è fallito miseramente se si guardano alle aspettative e alle promesse di pace e prosperità e non solo perché tre anni fa, a partire dagli USA, è scoppiata la bolla del mercato immobiliare con effetti devastanti sul mondo intero. La crisi è certo più generale, morale, sociale, politica e culturale… Guardiamo ai puri e semplici fatti… Poche famiglie, anzi poche persone della cosiddetta Superclasse, hanno concentrato nelle loro mani un immenso patrimonio e il controllo di risorse inimmaginabili, mentre nel mondo aumentano fame e miseria che, ormai, hanno cessato di essere un miraggio anche per le più abbienti popolazioni occidentali… La criminalità organizzata e transnazionale, presente nei mercati illeciti come in quelli ufficiali, continua ad espandersi lucrando sulla pelle di un sempre maggior numero di persone e corrompendo interi stati e nazioni… Nonostante le promesse esibite dopo la famosa caduta del Muro il mondo non è un posto più sicuro e i conflitti civili – sapientemente alimentati da mani esterne – proliferano con modalità che si richiamano sempre più a un terrorismo ora supportato dalle tecnologie belliche e ora rudimentale… I cambiamenti climatici e i disastri ambientali provocati da uno sviluppo senza freni e attuato senza pensare alle conseguenze sull’uomo e sul suo ambiente sono sempre più evidenti e fanno legittimamente pensare a scenari sempre più apocalittici… Grandi masse di gente si spostano da continente a continente spinte dalla sofferenza per cercare quello che non troveranno mai… Le metropoli somigliano sempre più a immense prigioni ove gli abitanti vagano senza meta, in una condizione perennemente precaria e senza via d’uscita… Che fine hanno fatto le aspirazioni anche a quella piccola felicità quotidiana ? E’ sin troppo facile dedurre che occorre sbarazzarsi prima di tutto di quel paradigma neoliberista, neocapitalista e postmoderno fondato sul Mercato e rimpiazzarlo con uno a misura d’uomo per poter finalmente sperare in un mondo migliore. Ma per permettersi questo lusso occorrerebbe ribellarsi, perché coloro che hanno costruito le loro fortune su questo oceano di ingiustizia, iniquità e sofferenza non accetteranno mai il cambiamento prospettato. Privatizzazioni, deregulation, competitività, ecc… Il mantra viene ripetuto da decenni…
Ribellarsi è giusto…
Ma per ribellarsi è necessaria una minima educazione alla democrazia e alla libertà…
Ciò non è possibile finchè il muro eretto da Matrix sarà solido e finchè si ergerà imponente sulle nostre teste e sui nostri corpi…
Chi potrà mai abbattere quel muro ?
Impresa titanica…
FINE
Link:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8633
18.07.2011
Bibliografia essenziale per approfondire gli argomenti relativi alla manipolazione, ai mass media e alla società dello spettacolo
- Alexis de Tocqueville “La democrazia in America” Rizzoli, Milano, 1992
- Gustave Le Bon “La psicologia delle folle” TEA, 2007
- Edward Louis Bernays “Propaganda” Fausto Lupetti, 2008
- Theodore W. Adorno e Max Horkheimer “Dialettica dell’illuminismo” Piccola Biblioteca Einaudi, 2010
- Guy Debord “La società dello spettacolo” Baldini & Castoldi, Milano, 1997
- Pier Paolo Pasolini “Scritti corsari” Garzanti libri, 2001
- Marshall Mcluhan “Gli strumenti del comunicare” Il Saggiatore, 2008
- Jean Baudrillard “La trasparenza del male – saggio sui fenomeni estremi” SugarCo, 1991
- Noam Chomsky e Edward S. Herman “La fabbrica del consenso” Marco Tropea Editore, 1998
- Noam Chomsky “Il potere dei media” Vallecchi Editore , 1994
Quindi ascoltatemi. Ascoltatemi! La televisione non è la verità! La televisione è un maledetto parco di divertimenti, la televisione è un circo, un carnevale, una troupe viaggiante di acrobati, cantastorie, ballerini, cantanti, giocolieri, fenomeni da baraccone, domatori di leoni, giocatori di calcio! Ammazzare la noia è il nostro solo mestiere.
Quindi, se volete la verità andate da Dio, andate dal vostro guru. Andate dentro voi stessi, amici, perché quello è l’unico posto dove troverete mai la verità vera! Sapete, da noi non potrete mai ottenere la verità. Vi diremo tutto quello che volete sentire mentendo senza vergogna: noi vi diremo che… che Nero Wolfe trova sempre l’assassino e che nessuno muore di cancro in casa del dottor Kildare! E per quanto si trovi nei guai il nostro eroe, non temete: guardate l’orologio, alla fine dell’ora l’eroe vince. Vi diremo qualsiasi cazzata vogliate sentire! Noi commerciamo illusioni, niente di tutto questo è vero! Ma voi tutti ve ne state seduti là, giorno dopo giorno, notte dopo notte, di ogni età, razza, fede. Conoscete soltanto noi. Già cominciate a credere alle illusioni che fabbrichiamo qui. Cominciate a credere che la tv è la realtà, e che le vostre vite sono irreali. Voi fate tutto quello che la tv vi dice: vi vestite come in tv, mangiate come in tv, tirate su bambini come in tv, persino pensate come in tv! Questa è pazzia di massa! Siete tutti matti! In nome di Dio, siete voialtri la realtà. Noi, siamo le illusioni. Quindi spegnete i vostri televisori, spegneteli ora. Spegneteli immediatamente! Spegneteli e lasciateli spenti! Spegnete i televisori proprio a metà della frase che sto dicendo adesso, spegneteli subito!”.
“Questa non è più una nazione di individui indipendenti, oramai. È una nazione composta da duecento e oltre milioni di esseri transistorizzati, deodorizzati, più bianchi del bianco, tutti profumati al limone: del tutto inutili come esseri umani, e rimpiazzabili come pezzi di un’auto.”
Monologo tratto dal film “Quinto potere” (1976) di Sidney Lumet
In memoria di Sidney Lumet (e di Orson Welles)
Considerando la grave e disastrosa situazione politica, ambientale, economica, finanziaria e culturale in cui versa il nostro sfortunato pianeta – sfortunato per aver incontrato il destino dell’uomo sul suo cammino – dovrebbe essere scoccata da tempo l’ora del rinnovamento e del cambiamento definitivo e radicale del paradigma dominante. Invece dietro il frastuono, il chiacchiericcio e la frenesia quotidiane si avverte ineludibile e implacabile il silenzioso deserto delle coscienze. Apparentemente da decenni viviamo e conviviamo in una condizione di letargo intellettuale e cognitivo, un sonno che accompagna i nostri passi, le nostre movenze, le nostre azioni e l’assenza di pensieri che siano autenticamente nostri. Nonostante la letteratura scientifica abbia da tempo coniato il termine “postdemocrazia”, mai come in questi anni siamo stati bombardati da sostantivi comodi, accomodanti e consolatori come “democrazia” e “libertà”. Siamo stati abituati sin troppo bene alle astrusità di teorici, politologi e sociologi come Fukuyama che, probabilmente su commissione, hanno trionfalisticamente ed entusiasticamente proclamato la “fine della storia”, con l’avvento di una società che per comodità possiamo etichettare con il termine abusato di “turbo capitalista”. Eppure… Eppure se i nostri posteri acquisteranno un giorno un’autentica consapevolezza degli accadimenti del nostro al mondo, sorrideranno pensando al passato e nei loro libri o saggi di storia descriveranno la nostra era come quanto di più lontano o distante possa essere concepito dalla normale nozione di democrazia e libertà dell’uomo. Forse non avranno remore a dipingere noi – disgraziati antenati – come una sorta di nuova classe di schiavi, che si è crogiolata e beata in una condizione di oppressione inconsapevolmente accettata. In effetti perché una società sia autenticamente democratica e riesca a promuovere e ad assecondare le naturali inclinazioni ed aspirazioni degli individui, occorre che coloro che la compongono siano cittadini, rousseauinamente educati e pensare ed agire secondo ragione e a concepire un interesse per quel bene comune che costituisce la reale essenza della politica genuinamente intesa. In poche parole sono necessarie l’istruzione, la cultura, una maturazione del senso estetico e un certo livello di benessere economico ma, soprattutto, “qualitativo”. Solo così l’uomo si può dotare di quella corazza che protegge dal quella latente fragilità che può sconfinare nella bestialità, nell’indolenza, nell’apatia, nell’indifferenza e nell’insensibilità. Per assurgere a tale e difficile condizione i comuni mortali che hanno a cuore sé stessi e “gli altri” sviluppano “naturali” relazioni sociali nel contesto familiare, a scuola, in ambito lavorativo, ecc… Tuttavia noi sappiamo bene – anche se forse inconsapevolmente – che “qualcosa” si è frapposto fra noi e gli altri, “qualcosa” che si è fatto schermo riflettente e barriera al tempo stesso impedendoci di afferrare la realtà da un lato e di aspirare a una cittadinanza ricca di contenuti dall’altro.
Come è potuto accadere ciò ?
Si tratta di un destino inevitabile, scritto nelle stelle ?
Oppure il prodotto dell’ingegno umano ?
Che la presenza di istituzioni rappresentative, democratiche e informate alla dottrina di separazione dei poteri non costituisse una garanzia veramente solida per i diritti individuali dei cittadini, era già stato intuito da un illustre e importante filosofo e storico francese, illuminista e di estrazione aristocratica, quell’Alexis De Tocqueville, precursore della sociologia moderna e autore del monumentale classico “Democrazia in America” scritto fra il 1832 e il 1840 e frutto di un’attenta e lucida osservazione dell’assetto sociale e istituzionale della giovanissima nazione che avrebbe dominato la scena internazionale dei secoli successivi. A differenza dei suoi contemporanei come Bonald e De Maistre, aristocratici e reazionari detrattori delle dottrine egualitarie, Tocqueville credeva nella possibilità di conciliare le libertà individuali con l’instaurazione di una forma di governo democratica. Figura a quel tempo unica nel panorama intellettuale, egli temeva che i tempi nuovi avrebbero potuto condurre a una nuova forma di tirannia non più fondata sul censo o sul privilegio, ma sul governo della maggioranza senza bilanciamenti o freni di sorta. Rispetto alle tendenze democratiche presenti negli stati europei, Tocqueville aveva ravvisato come negli Stati Uniti d’America fossero largamente diffuse quelle risorse sociali e istituzionali utili a porre un argine al potere della maggioranza, attraverso la proliferazione delle associazioni, il decentramento amministrativo e un forte spirito individualistico. Tuttavia, nonostante i toni ammirati presenti in alcune pagine, egli non potè fare a meno di registrare il conformismo dilagante nella popolazione americana, accompagnato dalla scarsità di spazi dedicati alla discussione. Quasi con spirito profetico e ancora degno di lettura e riflessione, quell’aristocratico francese aveva compreso – attraverso un’accurata descrizione ed analisi dei vizi e dei difetti delle nuove democrazie che si erano affermate nel Vecchio e nel Nuovo Continente – che la tirannia dei tempi moderni si sarebbe manifestato con un volto gradevole e paterno attraverso la promozione del conformismo e del benessere. Il padre “democratico” tende a mantenere i suoi figli in uno stato di perenne infanzia prendendosi cura dei loro bisogni e dei loro desideri. Con Tocqueville viene concettualizzata una schiavitù di tipo nuovo, qualcosa che opprime lo spirito di libertà rendendo gli individui indistinguibili nella massa e, perciò, relegando ai margini la cittadinanza autenticamente consapevole dei propri diritti. Per quanto autorevole, la voce di Tocqueville in quel tempo rimase isolata…
I decenni che, immediatamente, precedettero l’ingresso nel nuovo secolo ricco di promesse, furono complicati e difficili. Se da un lato i paesi europei erano attraversati da fermenti di progresso e di sviluppo che mai furono conosciuti a memoria d’uomo e il pensiero politico e sociologico lasciava largo spazio alle istanze ottimiste e progressiste del marxismo e del positivismo, qualcosa si muoveva da sponde insospettabili. Fondando la psicologia moderna e muovendo da una generale messa in discussione del paradigma “biologico” allora dominante nelle scienze psichiatriche, Sigmund Freud indagò le segrete forze dell’inconscio umano, sottratte alla ragione eppure così presenti nella vita degli individui, mentre il filosofo e filologo tedesco Friedrich Nietzche – che alla società consumista, edonista e del benessere, aveva dedicato le prime parole di fuoco – esaltò la dimensione eroicamente irrazionale degli individui facendone il fulcro di una concezione radicalmente antimoderna, antilluminista e antipositivista della storia. Al di là delle elucubrazioni delle varie ideologie e delle fedi religiose, il Superuomo è colui che dovrebbe realmente abbracciare la vita con tutto il suo peso e il suo dolore.
E’ in questa temperie culturale che nel 1895 lo psicologo e sociologo francese Gustave Le Bon scrisse la “Psicologia delle folle”, un discusso must della letteratura della psicologia sociale. Se per primo Sigmund Freud pose le basi teoriche della psicanalisi applicata agli individui, Le Bon fece altrettanto con le masse, le collettività e sicuramente tenne ben presente la lezione dello psicanalista austriaco. Secondo Le Bon l’identità individuale – e con essa la sua razionalità – si annulla a contatto con la massa che rappresenta un’entità a sé stante, dotata di una sua anima e di un suo inconscio. Grazie all’innegabile forza trasmessa dalla massa, i singoli acquisiscono un senso di onnipotenza e smarriscono qualsiasi cognizione di responsabilità. Essendo le masse le vere e inedite protagoniste della storia moderna e contemporanea, si può ben comprendere come per l’autore francese gli sviluppi della democrazia siamo connotati negativamente. Le masse sono necessariamente irrazionali e barbare, inclini all’emotività e alla violenza, poco e nulla propense a confrontarsi con le argomentazioni ragionate. Le caratteristiche naturali delle masse agevolerebbero la strada alla demagogia, al populismo e a quei leader che ben sanno solleticare le pulsioni delle folle. Infatti vero leader non è colui che espone fatti e argomenti con il supporto della logica e dell’evidenza empirica, ma, al contrario, propala al suo pubblico asserzioni e citazioni autoevidenti e semplici slogan che acquistano forza e credibilità proprio in ragione dell’”autorevolezza” dello stile adottato. Concepito come tentativo di mettere criticamente in guardia circa i pericoli insiti in nella società di massa, paradossalmente “La psicologia delle folle” finisce per imporsi come un utile manuale di manipolazione ad uso e consumo di demagoghi e dittatori. Il pamphlet suscita parimenti le lodi del reazionario e monarchico Maurras e del padre dell’anarcosindacalismo francese Sorel e viene attentamente letto dalle figure più rappresentative dei regimi totalitari degli anni Venti – Quaranta, Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini. In particolare quest’ultimo riconoscerà l’influenza esercitata dall’opera di Le Bon nel proprio apprendistato di dittatore fascista e artefice primo dei fondamenti dei fascismi.
Se i semi per far crescere le nuove piante della modernità erano già pronti ai tempi di Gustave Le Bon e di Sigmund Freud, bisognerà attendere ancora qualche tempo perché venga trovata l’acqua necessaria alla bisogna…
Fino a qualche tempo fa il nome di Edward Louis Bernays era poco conosciuto e suscitava l’esclusivo interesse degli studiosi del linguaggio e della comunicazione, eppure questo austro americano di enorme successo morto ultracentenario, rimane l’autentico profeta del tempo postmoderno, l’uomo che ha dato un senso ad espressioni come “manipolazione di massa” e “persuasione occulta”. Nato a Vienna nel 1892 e trasferitosi successivamente negli USA, Bernays era nipote del ben più celebre Sigmund Freud avendo suo padre sposato Anne, la sorella del padre della psicoanalisi. Sicuramente l’opera dello zio influenzò largamente la carriera di Bernays come pubblicitario. Dopo aver lavorato per un certo periodo come giornalista, venne chiamato del Presidente americano Woodrow Wilson insieme a Walter Lippmann per organizzare una campagna propagandistica in grado di convincere la recalcitrante opinione pubblica americana ad entrare in guerra contro la Germania e a fianco dell’Inghilterra durante la Prima Guerra Mondiale. Nell’arco di pochi mesi il duo riuscì ad instillare nella popolazione sentimenti antitedeschi talmente forti da consentire l’entrata in guerra dell’esercito americano agli inizi del 1917. La carriera di Bernays fu costellata da un gran numero di campagne propagandistiche e pubblicitarie di successo da meritare l’attenzione di governi e governanti sia “democratici” che totalitari, di uomini di affari americani e di svariate associazioni e fondazioni. Nel 1929, per incrementare la vendita delle sigarette e l’uso del tabacco, riuscì a far associare il fumo all’idea di emancipazione femminile organizzando un gigantesco corteo di donne fumatrici a New York. Lo strano corteo ebbe un tale riscontro che le vendite della Chesterfield raddoppiarono, mentre la Marlboro riprese la stessa idea con gli uomini. Inoltre il buon Bernays insinuò nelle menti degli americani l’idea che la colazione del primo mattino a base di uova e pancetta fosse legata alla tradizione, mentre in realtà fino agli anni Venti tali alimenti erano assenti dalle tavole delle famiglie americane. Edward Louis Bernays – assieme a Ivy Lee e a Walter Lippmann – creò la nuova figura professionale dello “spin doctor” o esperto delle Public Relations, colui che ha a disposizione le tecniche e le competenze per poter influenzare l’opinione pubblica – termine che verrà coniato proprio da Lippmann -. Lo scopo essenziale di uno “spin doctor” è quello di agevolare la vendita di un’ideologia, di un’opzione governativa, di una campagna civile di opinione, di un qualsivoglia prodotto o merce, influenzando le scelte dei destinatari. Non sorprende eccessivamente che questa professione riesca ad imporsi innanzitutto negli USA ove diviene la pietra di paragone e il modello per le successive generazioni. La particolarità di Bernays rispetto alla maggior parte dei colleghi con i quali condivideva i lauti compensi ricevuti dalle multinazionali e dalle corporations per l’ingegnosità dei meccanismi pubblicitari ideati per incrementare le vendite, stava nella sua pretesa di fondare una vera e propria scienza delle Pubbliche Relazioni, con le proprie regole e i propri rudimenti da trasmettere allievi desiderosi di apprendere. Amico piuttosto intimo del Presidente democratico Franklin Delano Roosevelt, divenne l’oggetto delle lodi del Ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels il quale rivelò ad un giornalista americano come le campagne del Partito Nazionalsocialista tedesco fossero ispirate al testo di Bernays “Crystallizing public opinion” . Al ministro nazista si deve peraltro la massima che “una bugia ripetuta una, dieci, cento, mille volte diventa verità”, sintetizzando così il senso dell’attività degli “spin doctor”. Dal punto di vista filosofico e teorico Bernays si rifaceva senza dubbio al concetto di inconscio elaborato da Freud, ma anche alle idee di Le Bon circa l’anima irrazionale delle folle e alle teorie di Wilfred Trotter. Il risultato delle sue esperienze venne da lui compendiato nel testo “Propaganda” (1928) ancor oggi illuminante, anzi, fin troppo dato che questo saggio datato è stato pubblicato in Italia solo due anni fa. Dalla sostanziale irrazionalità ed emotività delle masse ne consegue – secondo Bernays – il ricorso agli slogan immediati e alle immagini per guadagnarne il consenso. Inoltre Bernays è fra i primi ad avanzare l’idea di un “governo invisibile” che, in questo caso, possiede la capacità di tenere sotto controllo le masse plasmandone la mente ed influenzandone opinioni, comportamenti, atteggiamenti, inclinazioni, gusti, ecc… La società sarebbe nelle mani di coloro che sono in grado di suggestionare le masse a loro piacimento. Molto attivo in un periodo di grande sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (si pensi alla radio e al cinema soprattutto con i primi cinegiornali), Bernays ne intuisce le potenzialità per la professione. Per quel che concerne le convinzioni politiche del capostipite degli “spin doctor” – nonostante asserzioni di adesione alla democrazia – traspaiono piuttosto chiaramente concezioni elitarie e corporative in base alle quali un paese non può essere retto se non da una minoranza di persone competenti che possono indirizzare l’opinione pubblica grazie al lavoro dei professionisti delle Pubbliche Relazioni. E’ la “democrazia” di marca tipicamente americana e anglosassone che si estenderà nel mondo. Quanto alle prime tappe dello sviluppo dei nuovi mass media è lecito chiedersi se, per caso, il loro largo utilizzo avesse contribuito non poco a far precipitare il mondo in quella che rimane ancora oggi e a memoria d’uomo il più catastrofico dei conflitti del pianeta. Olocausto nazista, lager, gulag, fosse comuni, bombardamenti a tappeto sulle capitali europee ed asiatiche, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, ecc… V’è da chiedersi se tutto questo orrore sarebbe stato possibile senza l’irreggimentazione di masse intossicate e avvelenate da martellanti propagande d’odio…
Il periodo che segue, e percorre le umane vicende fino ad oggi non è più storia, ma appartiene alla dimensione pura delle cronaca, ancora da decifrare ed interpretare. Adottando una chiave di lettura marxiana della storia e, quindi, partendo dall’evoluzione della struttura economica, dobbiamo rilevare che le devastazioni prodotte dal secondo conflitto mondiale hanno determinato la necessaria spinta alla ricostruzione con tutte le conseguenze che ne derivarono. L’unica vera potenza vincitrice della guerra, gli USA, che rimpiazzarono la declinante Corona britannica, elargì i finanziamenti necessari alla ricostruzione delle nazioni europee occidentali attraverso il Piano Marshall. L’enorme ammontare di capitali che venne impiegato per far “rinascere” la Vecchia Europa occidentale costituì un potente stimolo allo sviluppo del capitalismo che mutò pelle nell’inedito ed emergente neocapitalismo. L’austerità del capitalismo “puritano” delle origini, descritta e analizzata efficacemente dal sociologo Max Weber, non rispondeva più alle necessità imposte dall’accumulazione del boom economico mondiale. Da un lato una sempre maggiore quota di capitali venne sottratta alle attività genuinamente industriali e produttive per essere destinata alle manovre speculative, alla conquista dei pacchetti azionari, all’occultamento di fondi nei cosiddetti paradisi fiscali, alle logiche delle Borse e dei Cambi, ecc… Dall’altro, sul versante dei lavoratori e dei fruitori dei prodotti finiti, la crescita relativa dei redditi e l’acquisizione di merci utili alla liberazione del tempo da dedicare al lavoro – si pensi agli elettrodomestici – rendevano effettivamente e maggiormente disponibili lo spazio e il tempo per i consumi voluttuari e superflui. La società basata sulla produzione e sul lavoro – con le sue regole anche rigide e apparentemente immutabili – venne necessariamente ridefinita dall’individualismo, dal consumismo e dall’edonismo sempre più imperanti. L’identità degli individui, definita prima dal contesto produttivo, venne sempre più plasmata dalle dinamiche appartenenti al tempo libero e dedicato al consumo.
Dal punto di vista delle conseguenze inerenti le gerarchie sociali l’evoluzione neocapitalista comportò l’egemonia della superpotenza americana grazie al rafforzamento del complesso militare ed industriale e alle possibilità concesse dai cordoni della Borsa attraverso Wall Street e l’affermazione della classe, anzi Superclasse, di mercanti e “commercianti”, venditori i cui nomi sono celati nei pacchetti azionari di controllo delle multinazionali e corporations che - talvolta in competizione, talaltra in regime di accordo oligopolistico – “commercializzano” le risorse strategiche del pianeta.
A mio giudizio tutta la cronaca recente dovrebbe essere letta e interpretata alla luce dell’affermazione mondiale del Mercato come sistema economico e come paradigma culturale ed antropologico: la globalizzazione altro non è se non l’espansione del Mercato – con le sue multinazionali, i suoi venditori, i suoi consumatori, ecc… - all’intero pianeta. Un Impero non più territoriale, ma, anzi, spesso transnazionale e, addirittura, “immateriale”. Ai blasoni e gli stemmi delle casate aristocratiche subentrano i logo delle grandi imprese industriali, commerciali e finanziarie. Conseguentemente anche gli eventi di grande portata economica, politica e militare dovrebbero essere guardati tenendo bene a mente le dinamiche di questa aggressione esercitata su nazioni e popoli. Se la Guerra Fredda non è quel confronto fra Superpotenze (USA e URSS) rappresentato comodamente dai libri di storia, ma la narrazione della sistematica e costante linea di conquista ed espansione dell’Occidente nei confronti del blocco sovietico dell’Europa dell’Est, la decolonizzazione offrì la gigantesca opportunità di avanzare una forma più sottile e penetrante di colonialismo che, pur riconoscendo l’indipendenza dei nuovi paesi emergenti in Asia, in Africa e America Latina, veniva esercitato grazie al controllo dell’economia – vedi i debiti e le politiche di “aggiustamento strutturale” – e delle risorse naturali. Non deve stupire, quindi, che le varie amministrazioni statunitensi si siano concentrate sulla costruzione della più poderosa e capillare macchina bellica e di conseguenza terroristica che mai l’umanità abbia conosciuto e che in ogni continente siano insediate basi militari della NATO. D’altronde, dagli anni successivi al Secondo Conflitto Mondiale ad oggi, azioni militari, paramilitari psicologiche, propagandistiche e realmente terroristiche non sono state attuate solo nei confronti dell’URSS, ma soprattutto, contro quegli stati del cosiddetto Terzo o Quarto Mondo che hanno rifiutato di sottostare alle logiche del Mercato adottando ora politiche di stampo socialista, ora di matrice nazionalista…
Se il mondo tende ad assomigliare sempre più ad un Mercato ove ogni oggetto, pensiero, idea, ecc… viene sistematicamente commercializzata e dove ogni rapporto si configura come relazione fra venditore e consumatore, la pubblicità non può che costituire la linfa vitale del sistema. Perché un prodotto venga venduto e fruito è necessario renderlo desiderabile e attraente agli occhi e al palato del consumatore e, perciò occorre mettere in campo strategie di marketing in grado di conquistare la mente e il cuore dei clienti. Mai come in questo ultimo mezzo secolo si è assistito a un tale sviluppo della pubblicità e dei mezzi a cui essa fa ricorso. Si affermano le professioni dei pubblicitari, dei creativi, dei designer, ecc… lautamente pagate grazie agli utili di impresa. La pubblicità diventa onnipresente e invadente perché tale è il Mercato sempre più globalizzato. Si pensi, a titolo di esempio, alle elezioni “democratiche” della postmodernità: una mercato dei voti contesi da partiti e movimenti politici con il sempre più frequente ricorso a quelle strategie tipiche del marketing pubblicitario. Non contano le argomentazioni, ma la veste esteriore con cui un messaggio viene lanciato.
Naturalmente l’utilizzo di tecniche pubblicitarie sempre più efficaci e penetranti è reso possibile dallo sviluppo ulteriore dei mass media e, in primis, della televisione che, oltre ad offrire un’inedita forma di intrattenimento per le famiglie, si impone subito come veicolo impressionante di messaggi pubblicitari. Nel chiuso delle mura domestiche penetrano immagini rassicuranti, distensive e accattivanti sull’ultimo modello di automobile o sulla nuova bibita gassata. La rapida diffusione e popolarità del mezzo televisivo impone una più generale riflessione sul rapporto fra i nuovi mezzi di comunicazione di massa, l’inedita “cultura dell’immagine” e la sempre più estesa società dello spettacolo…
Fu l’intellettuale situazionista francese Guy Debord a coniare il termine “società dello spettacolo” per rendere l’idea di un sistema sociale e culturale – quello neocapitalista, appunto – pervaso dalla imperante dimensione della rappresentazione e dell’immateriale. Se è ancora impresa ardua stabilire con certezza se fin dagli anni Sessanta – quelli di maggior diffusione delle idee e dei concetti elaborati dal movimento situazionista e dalla Nuova Sinistra – il panorama delle società occidentali era dominato dalla onnipresenza dei meccanismi spettacolari e della rappresentazione, nondimeno bisognerà riconoscere che la tendenza all’espansione dell’industria dello spettacolo, dell’intrattenimento e del divertimento inizia all’incirca in quel periodo. Tale fenomeno si verifica per una serie di fattori fra loro interconnessi in una certa misura. Già abbiamo accennato al fatto che l’iniziale spinta alla crescita del neocapitalismo – fin dall’immediato Dopoguerra – determini un più generale aumento dei redditi e all’espansione del tempo libero o liberato dal lavoro nelle società occidentali. Conseguentemente gli individui finiscono per dedicare una quota assai maggiore del loro tempo e delle loro risorse al divertimento, allo svago, al gioco e, quindi, alla visione degli spettacoli sotto diverse forme – teatrali, cinematografiche, televisive, musicali, ecc… - In secondo luogo la dimensione “spettacolare” della società odierna viene accentuato dallo sviluppo senza precedenti dei mass media. Dalla radio e dal cinema all’innovazione rivoluzionaria rappresentata dalla televisione… Fino all’industria dell’home video (videoregistratori, lettori DVD e PC) degli anni Ottanta e alla più recente ondata multimediale con Internet, il digitale terrestre e la televisione “pay per view” e i nuovi prodotti “tascabili” (cellulari, iPod, MP3, ecc…). L’industria culturale (o sottoculturale) e dello spettacolo veicolata dai nuovi media finisce per assolvere innanzitutto tre funzioni rilevanti. Conquistando fette sempre maggiori di mercato, essa si impone come fonte impareggiabile di profitto ed investimento. Se una massa enorme di capitali viene impiegata nell’informazione, nei media e nello spettacolo, significa che il ritorno economico è assai più ampio. In secondo luogo, attraverso i media si inviano messaggi pubblicitari utili per lanciare altri tipi di prodotti che il pubblico sarà ben disponibile ad acquistare. Infine, come più volte rilevato dal linguista Chomsky, gli spettacoli e i divertimenti assortiti distolgono il pubblico dall’impegno civile e dall’attenzione verso le problematiche che dovrebbero interessare la cittadinanza. Questo aspetto è assai gradito a chi detiene potere e ricchezze e può essere riassunto nella massima latina “Panem et circenses”, ovvero come gestire le masse, la loro volubilità e la tendenza al malcontento. In fondo è un altro bel modo per addormentare le coscienze…
Dal punto di vista strettamente sociale o sociologico, l’affermazione dell’industria dello spettacolo e del suo enorme mercato comporta alcuni importanti cambiamenti nella gerarchia sociale. La crescita esponenziale degli introiti del settore conduce ad una concentrazione delle imprese e delle società ormai divenute gigantesche multinazionali editoriali – massmediatiche – spettacolari. I celebri esempi della News Corporations di Murdoch e i suoi innumerevoli addentellati nel giornalismo, nella televisione e nel cinema o il nostrano impero Mediaset di Berlusconi e famiglia (canali televisivi anche all’estero, distribuzione e produzione cinematografica, calcio, ecc…) non esauriscono l’interessante panorama che, per essere indagato e sceverato esaustivamente – richiederebbe molto tempo e spazio. Basti ricordare come il controllo di una multinazionale dello spettacolo è capace di donare un’influenza pari a quella esercitata dai colossi dell’industria energetica e petrolifera.
Inoltre i profitti generati dal settore conferiscono, poi, un rinnovato prestigio a quella che mi preme definire come la classe dei “professionisti dell’intrattenimento”, nonché a un aumento notevole dei relativi compensi. Intellettuali o esperti a gettone, i conduttori di talk show, professionisti del sensazionalismo giornalistico, scrittori di best seller letterari, presentatori televisivi o radiofonici, anchorman, cantanti rock, pop o folk, registi o attori televisivi o cinematografici, calciatori, piloti o altri divi dello sport, comici, il concorrente di quiz o reality, l’ospite televisivo, soubrette, veline, pornostar, ecc… Adottando l’accezione più ampia della categoria, ognuna delle figure summenzionate indossa le vesti del “professionista dell’intrattenimento”, essendo remunerato per divertire e sollazzare il “suo” pubblico. In tempi antichi ma non troppo remoti saltimbanchi, giocolieri, acrobati, ecc… - ovvero i corrispettivi degli odierni “professionisti dell’intrattenimento” – venivano relegati quasi ai margini della scala sociale al pari dei vagabondi e degli zingari. Un salto notevole e degno di nota, non v’è dubbio…
Per quanto riguarda il terzo anello dei rapporti “massmediatici”, quello più debole del pubblico, occorrerebbe mettere a fuoco categorie e concetti di ordine antropologico, culturale e, naturalmente, psicologico piuttosto che di tipo sociologico o economico. In Italia – fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta – è stato il poeta e regista Pasolini il primo ad imbastire un discorso articolato e complesso sulla trasformazione antropologica del popolo italiano provocata dall’affermazione dell’edonismo consumista soprattutto attraverso la televisione e i linguaggi pubblicitari. Tuttavia, ancor oggi, si attende uno studio accurato e scientifico ma critico sulla mutazione degli individui nella società dello spettacolo. A mio parere, per comprendere meglio la portata epocale del fenomeno, non si può prescindere dalla generale trasformazione dei modelli di comunicazione e del linguaggio. La storia dell’umanità è, per la sua gran parte, contrassegnata da sistemi e codici linguistici che fanno riferimento all’oralità e, successivamente, alla scrittura. Per quanto l’immaginazione e il ricorso alle immagini abbia sempre caratterizzato la vita quotidiana degli individui, invece, non è mai stata messa a punto una colonizzazione dell’immaginario come quella recentemente esperita. L’uomo attingeva alle sue risorse interiori e mentali per ideare e mettere a punto il suo bagaglio di fantasia e visioni. Ciò lascia ampio spazio alla creatività individuale e, in ultima istanza, alla libertà. Si pensi, ad esempio, alla poesia, alle immagini poetiche o alle fiabe antiche che permettono agli infanti di esercitare a buon diritto l’immaginazione per riempire i dettagli delle storie. L’evoluzione massmediatica di quest’ultimo secolo, invece, ha imposto una “cultura dell’immagine” e, quindi, la conseguente occupazione degli spazi mentali riservati alla creatività e all’immaginazione individuale. Dal cinema e dalla televisione fino alla recente rivoluzione dell’home video e della multimedialità, la “cultura dell’immagine” ha concorso a deprimere le umane capacità e possibilità. Non solo l’immagine artificiosa e imposta dall’esterno scaccia ed esclude quella che scaturisce spontaneamente e naturalmente dall’individuo dissolvendo le sue risorse creative, ma agisce anche sulla razionalità. L’immagine non richiede di essere elaborata, analizzata e interpretata come accade per la comunicazione scritta, ma al contrario deve essere assorbita e assimilata senza alcuna mediazione. La potenza delle immagini fa leva sulla parte irrazionale ed istintuale degli individui, come già avevano rilevato a loro tempo Le Bon e Bernays. Oggi il problema non è, però, dettato dalla presenza di immagini artificiali e artificiose, ma dalla loro invasività e dalla loro moltiplicazione. Ovunque nello spazio del mondo postmoderno si popola di immagini e messaggi pubblicitari – dalla cartellonistica ai grandi schermi allestiti nelle piazze passando per la presenza di apparecchi televisivi negli esercizi commerciali – che si impongono necessariamente alla vista degli astanti. Probabilmente non è più tanto corretto parlare di persuasione occulta e messaggi subliminali, perché ormai le immagini hanno talmente occupato le nostre vite da far coincidere l’esistenza con i messaggi fatti passare attraverso i vari mass media. Semplicemente le immagini non hanno solo colonizzato e occupato le nostre menti, ma lo spazio reale e fisico in cui svolgiamo le nostre attività quotidiane. E’ quel trionfo del “virtuale” illustrato a suo modo nel film “Matrix”.
L’ultima frontiera dello sviluppo dei mass media e della diffusione della “cultura delle immagini” prende il nome di interattività, ovvero del coinvolgimento diretto del pubblico negli spettacoli offerti dai prodotti massmediatici. Le ultime innovazioni in fatto di multimedialità – telefonini, webcam, la nuova generazione di videogames, i social network, ecc… – prevedono l’interazione diretta dei fruitori. A ciò si aggiunga la novità televisiva dell’ultimo decennio rappresentata dai reality show con la partecipazione di quelle persone comuni che, un tempo, facevano parte esclusivamente del pubblico. Tali novità hanno indotto molti a credere finalmente in una sorta di “democrazia virtuale” ove il cittadino comune può finalmente esprimere e manifestare i suoi pensieri, le sue opinioni, le sue emozioni e i suoi sentimenti, nonché dare sfogo alla sua creatività. L’uomo comune può esibire il suo corpo, può improvvisarsi regista, attore e cantante, può diventare inaspettatamente un opinion maker amato e seguito, ecc… Tale “democrazia virtuale”, però, altro non è se non illusione, perché lo spazio fisico e mentale è già stato occupato dalle immagini scaturite dai mass media e, quindi, da coloro che detengono la proprietà e il controllo del mercato editoriale – informatico – informativo - massmediatico – spettacolare. Altri fissano le regole del giuoco a cui dobbiamo giocare… Forse, come affermava il vecchio Howard Beale ne “Quinto potere”, non può esserci salvezza se non spegnendo i nostri apparecchi… E ritornare così a coltivare un’esperienza diretta con le cose che ci circondano e che popolano il mondo… Occorre abbattere il muro di “Matrix”…
Occorre ribadirlo con forza… L’impero mercantile e quel paradigma ideologico neoliberista imposto dalle grandi concentrazioni finanziarie, bancarie, industriali e commerciali, ovvero dalla classe dei nuovi mercanti, è fallito miseramente se si guardano alle aspettative e alle promesse di pace e prosperità e non solo perché tre anni fa, a partire dagli USA, è scoppiata la bolla del mercato immobiliare con effetti devastanti sul mondo intero. La crisi è certo più generale, morale, sociale, politica e culturale… Guardiamo ai puri e semplici fatti… Poche famiglie, anzi poche persone della cosiddetta Superclasse, hanno concentrato nelle loro mani un immenso patrimonio e il controllo di risorse inimmaginabili, mentre nel mondo aumentano fame e miseria che, ormai, hanno cessato di essere un miraggio anche per le più abbienti popolazioni occidentali… La criminalità organizzata e transnazionale, presente nei mercati illeciti come in quelli ufficiali, continua ad espandersi lucrando sulla pelle di un sempre maggior numero di persone e corrompendo interi stati e nazioni… Nonostante le promesse esibite dopo la famosa caduta del Muro il mondo non è un posto più sicuro e i conflitti civili – sapientemente alimentati da mani esterne – proliferano con modalità che si richiamano sempre più a un terrorismo ora supportato dalle tecnologie belliche e ora rudimentale… I cambiamenti climatici e i disastri ambientali provocati da uno sviluppo senza freni e attuato senza pensare alle conseguenze sull’uomo e sul suo ambiente sono sempre più evidenti e fanno legittimamente pensare a scenari sempre più apocalittici… Grandi masse di gente si spostano da continente a continente spinte dalla sofferenza per cercare quello che non troveranno mai… Le metropoli somigliano sempre più a immense prigioni ove gli abitanti vagano senza meta, in una condizione perennemente precaria e senza via d’uscita… Che fine hanno fatto le aspirazioni anche a quella piccola felicità quotidiana ? E’ sin troppo facile dedurre che occorre sbarazzarsi prima di tutto di quel paradigma neoliberista, neocapitalista e postmoderno fondato sul Mercato e rimpiazzarlo con uno a misura d’uomo per poter finalmente sperare in un mondo migliore. Ma per permettersi questo lusso occorrerebbe ribellarsi, perché coloro che hanno costruito le loro fortune su questo oceano di ingiustizia, iniquità e sofferenza non accetteranno mai il cambiamento prospettato. Privatizzazioni, deregulation, competitività, ecc… Il mantra viene ripetuto da decenni…
Ribellarsi è giusto…
Ma per ribellarsi è necessaria una minima educazione alla democrazia e alla libertà…
Ciò non è possibile finchè il muro eretto da Matrix sarà solido e finchè si ergerà imponente sulle nostre teste e sui nostri corpi…
Chi potrà mai abbattere quel muro ?
Impresa titanica…
FINE
Link:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8633
18.07.2011
Bibliografia essenziale per approfondire gli argomenti relativi alla manipolazione, ai mass media e alla società dello spettacolo
- Alexis de Tocqueville “La democrazia in America” Rizzoli, Milano, 1992
- Gustave Le Bon “La psicologia delle folle” TEA, 2007
- Edward Louis Bernays “Propaganda” Fausto Lupetti, 2008
- Theodore W. Adorno e Max Horkheimer “Dialettica dell’illuminismo” Piccola Biblioteca Einaudi, 2010
- Guy Debord “La società dello spettacolo” Baldini & Castoldi, Milano, 1997
- Pier Paolo Pasolini “Scritti corsari” Garzanti libri, 2001
- Marshall Mcluhan “Gli strumenti del comunicare” Il Saggiatore, 2008
- Jean Baudrillard “La trasparenza del male – saggio sui fenomeni estremi” SugarCo, 1991
- Noam Chomsky e Edward S. Herman “La fabbrica del consenso” Marco Tropea Editore, 1998
- Noam Chomsky “Il potere dei media” Vallecchi Editore , 1994
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